lunedì 1 ottobre 2012

Alla corsara 7 - Del populismo

Per quanto l'espressione mi intenerisca e rattristi - dato che ricorda tempi in cui dialogo e discussione avevano e davano senso - a volte è adatta: ferve il dibattito, sulla stampa e in tv, sul tema del populismo, con la partecipazione di grandi nomi. Per mettersene al corrente è utile il bell'articolo di Gigi Riva che trovate qui, dove il giornalista fa un'ampia panoramica di autori e posizioni. E parlando dell'ultimo libro del raffinato maître-à-penser Todorov, I nemici intimi della democrazia (Garzanti 2012), ne cita un brano: «[Il populismo] È presente ogni volta che si pretende di trovare soluzioni semplici per problemi complessi, proponendo ricette miracolose all'attenzione distratta di chi non ha tempo per approfondire. Può essere sia di destra sia di sinistra, ma propone sempre soluzioni immediate che non tengono conto delle conseguenze a lungo termine. Preferisce semplificazioni e generalizzazioni, sfrutta la paura e l'insicurezza, fa appello al popolo, cortocircuitando le istituzioni. Ma la democrazia non è un'assemblea permanente né un sondaggio continuo». All'articolo di Riva fa seguito, questa settimana, un approfondimento/replica di Sofia Ventura, qui, dove la brillante autrice afferma: «L'emergere di movimenti e partiti che con una propaganda fatta di estreme semplificazioni individuano nemici (dai tecnocrati agli immigrati, dalle banche a occulti poteri transnazionali) e che, pur presentandosi alle elezioni, nei contenuti e talvolta nei comportamenti appaiono poco compatibili con i principi delle nostre democrazie, giustamente preoccupa.»

Entrambi gli autori sembrano descrivere realtà marginali e minacciose, possibilità condizionali di deriva di un sistema per altri versi sano e funzionante. È un caso lampante di gestione dell'anomalia, nei termini della filosofia della scienza di Kuhn, un modo per disinnescare conseguenze catastrofiche per un intero paradigma che nell'anomalia stessa trova la sua crisi e superamento. Qual è l'anomalia? Per quanto scrive la Ventura, la prima cosa che viene in mente è che la sua descrizione si attaglia alla perfezione alla Lega, partito che ha governato l'Italia per più di un decennio: non parliamo quindi di gruppuscoli facinorosi, ma di realtà consolidate e potenti che giustamente dovrebbero preoccuparci. Per quanto citato da Todorov, invece, la questione è ancora più delicata, perché di fatto l'autore descrive il modo di procedere dell'intera cultura occidentale da qualche secolo a questa parte. Dice Morin del paradigma di semplificazione che, «di fronte a ogni complessità concettuale, prescrive sia la riduzione, sia la disgiunzione» (I sette saperi necessari all'educazione del futuro, Milano, Cortina, 2001, p. 25) e ci ricorda (p. 24) che «il paradigma prescrive e proscrive, effettua la selezione e la determinazione della concettualizzazione e delle operazioni logiche. Designa le categorie fondamentali dell'intelligibilità e opera il controllo del loro uso. Così, gli individui conoscono, pensano e agiscono secondo i paradigmi inscritti culturalmente in loro.»


Se quelli descritti da Todorov a proposito delle famose minoranze cattive sono invece i procedimenti di attribuzione di senso della cultura occidentale, stupirsi dell'incedere del populismo è perlomeno peculiare. Come potrebbe, una cultura che predica la riduzione e la semplificazione come strada maestra per la comprensione della realtà, generare istituzioni che si conformino a questi principi? Lo stesso utilizzo del termine populismo è semplicemente apologetico, vuole stigmatizzare una piccola parte per salvare l'intero, senza riuscire a vedere - e non per malafede, ma per quello che sempre Morin chiama «accecamento paradigmatico» - che il problema è a monte, nella transizione verso nuove grammatiche di descrizione della realtà che correggano errori secolari, sulla scorta dei quali è oggi pressoché impossibile distinguere tra il populismo paventato e quella che chiamiamo democrazia.

sabato 29 settembre 2012

Alla corsara 6 - Parole come pietre

Ferve un vivace dibattito sulla condanna al direttore di Libero, Alessandro Sallusti, per diffamazione a mezzo stampa. O meglio, per aver consentito a pubblicare un articolo sotto pseudonimo di un manigoldo - bella la lingua alla Dumas, a volte! - contro un giudice impegnato in un caso di aborto. Il manigoldo in questione è Renato Farina, alias Betulla, sgherro dei servizi segreti deviati - cerco ancora di capire quali siano quelli retti... - radiato dall'ordine dei giornalisti e specialista dell'assemblaggio di dossier falsi, pratica che il discorso corrente denomina "macchina del fango". Per il caso si invoca la libertà di parola...

Cercando di tenere a bada la rabbia, faccio notare che si tratta di un altro esempio della ripetizione meccanica di certi modelli di pensiero e schemi di comprensione del mondo che ci sta portando a perdere gran parte del terreno che il genere umano era riuscito bene o male a coprire. La fissazione aut/aut spinge a ragionare in termini di "sempre" e "mai", non di "qualche volta". E il delirio antiregolativo che vede ogni limite come un affronto - pur portando a un proliferare canceroso di regole e regolette veramente esasperante - propende per il "sempre". La semplice e scomoda domanda che viene spontanea è: perché? Perché dovrebbe essere consentito a pennivendoli senza scrupoli di dire tutto ciò che passa loro per la testa senza conseguenze? In nome della libertà di pensiero? MA PER FAVORE! Pensare non è semplicemente scrivere parole una dopo l'altra e sarebbe il caso di cominciare a puntualizzarlo. E l'idea che tra pensiero e agire non ci siano correlazioni e quindi conseguenze e possibili sanzioni è un altro aspetto velenoso del lascito cartesiano.

Inoltre, i termini di quel dibattito risalgono a un tempo in cui esisteva l'idea di dignità e l'esprimere un giudizio difforme da quello del potere poteva portare veramente alla morte, all'esilio o alla prigionia. E chi tali giudizi formulava era pronto a farsene carico anche a prezzi altissimi. Non certo un anno e spicci, che al direttore di Libero potrebbero servire per riflettere sulla qualità umana - in generale, non soltanto del giornalista, anche se questo ha armi ben diverse dal cittadino privo di accesso ai media - quando non costituissero con ogni probabilità la base di libri e memorie altrettanto falsi e tendenziosi con le quali l'essere in questione si potrebbe far ricco. Già immagino l'editore... Come spesso accade, mantenere le facciate e cambiare i contenuti è comodo, soprattutto per chi ha un'inesistente dimensione etico-morale. Sulla scorta di una sacrosanta conquista, sacrosanta in un tempo e in un luogo, un altro tempo e un altro luogo, tristemente diversi, rivendicano il diritto a comportamenti che quell'altro tempo avrebbe punito con vigore e sdegno. E svuotano lo strumento della parola, uno dei più raffinati e complessi tra quelli a nostra disposizione, di qualunque efficacia. La logica dell'annuncio a vuoto, la smentita contro ogni evidenza, l'arroganza maniacale di buona parte della classe politica vengono da qui, dall'incapacità all'autocritica e alla revisione di un'intera cultura. Che in nome di un simulacro è disposta a difendere l'indifendibile piuttosto che immaginare limiti e punizioni per chi quel simulacro svilisce con l'opera quotidiana.

domenica 26 agosto 2012

L'immaginazione al di qua del muro

Fine della seconda stagione, bei colpi di scena, ma è difficile non farsi assalire da una certa depressione. Su una Terra devastata dall'attacco alieno, i pochi superstiti riescono miracolosamente a rimettere in piedi una comunità e cosa fanno? Lottano col nemico? Studiano strategie di contrattacco? No, si perdono in beghe di potere virtuale - dato che la sopravvivenza più che una scommessa è un grosso punto interrogativo - e ricreano il peggior ambiente amministrato e burocratizzato possibile, con invidie meschine, rivalità, odi, tutto l'ambaradan col quale facciamo i conti tutti i giorni e pare essersi ormai engrammato nel nostro DNA. Come dicevo di Battlestar Galactica - situazione quasi identica, sviluppi pure - quello che mi abbatte di più è che non riusciamo nemmeno a immaginarlo, un corso diverso delle cose. A formulare un giudizio onesto e lucido - Cartesio sarebbe fiero di me! - dei nostri affari che ci consenta di dire basta a certe idolatrie, fissazioni, monomanie che ci stanno portando al disastro. Se devo pensare a un futuro, uno nel quale tutto è saltato e potrei veramente liberarmi dalle "catene della necessità" di cui scriveva Colli, non riesco a pensarlo che identico a questo, pur essendo perfettamente conscio dell'assurdo che si sedimenta nel seguire senza critica e ironia comportamenti sclerotizzati. Del quale sono tanto consapevole da descriverlo, sì, ma con rassegnazione. Come se fosse Umano. Come se non potesse essere altrimenti. Certo, c'è ancora la Seconda Massachusetts, qualcuno che proprio non ce la fa. Ma viene prontamente espulso da chi pensa che i suoi comportamenti compulsivi siano la realtà. Che tra il proprio racconto e il mondo non ci sia distanza. Che basti girarsi dall'altra parte.
 
E così... Certo, oggi non abbiamo gli alieni - anche se se ne potrebbe discutere. La gente di Charleston, invece, l'abbiamo, in abbondanza. E anche prospettive di devastazione che non hanno neanche il pregio di essere inflitte da altri. E senza forzare troppo un'immaginazione esausta mi chiedo: e se tornassimo a bomba? Il Senato romano era ben consapevole di essere formato in larga misura da vecchie volpi, maneggioni e sfruttatori di intere popolazioni, ma sapeva anche che a volte il mondo non ha tempo né pazienza per godersi manovre e raggiri e che qualcuno della Seconda Massachusetts in giro, per fortuna, c'è sempre. Uno che poi torna all'aratro. Uno cui affidarsi quando si è palesemente incapaci. Lo chiamavano dictator, termine incorso purtroppo in tristi incidenti storici e quindi poco amato da molti, me compreso. Quello però era altro: era la presa d'atto dell'emergenza e la mossa furba per venirne fuori. Una versione decisamente più efficace dell'escamotage "tecnico" cui siamo comunque arrivati, vista la canna del gas. Sarebbe carino ripensare all'idea, fuori da incrostazioni ideologiche e con una giusta normativa. Che lascerebbe liberi da consorterie e giochi di favori e ricatti. E capaci di servire per una volta l'interesse generale.

sabato 2 giugno 2012

Alla corsara 5 - Un chilo di coesione, grazie

Come in ogni momento di crisi, gli appelli alla coesione, solidarietà e fiducia reciproca fioccano, accolti in larga misura da sbuffi e contestazioni assortite. Spesso a sbuffare sono gli stessi che pretendono la solidarietà altrui, manifestando allo stesso tempo sfiducia e sospetto per coloro che dovrebbero dispensarne i frutti. Per quanto irritante, è una situazione che richiede una qualche riflessione - che di solito si evita perché finisce inevitabilmente per intaccare i comodi assunti di senso comune con i quali ci si destreggia nel disordine contemporaneo, politici, scienziati sociali, commentatori e spettatori uniti nella miopia.

La prima domanda che si affaccia alla mente: coesi attorno a cosa? Immagino dovrebbe trattarsi di un valore comune, di un ideale, qualcosa del genere; il primo che viene alla mente è la cittadinanza comune, l'appartenenza repubblicana e italiana, ma è un riflesso datato, visti gli alti lai che stanno accompagnando le celebrazioni odierne, insensibili al paradosso della richiesta. L'idea è di rinunciare alle spese inutili - leggi improduttive - a favore del soccorso di chi al momento ha bisogno; le spese inutili tuttavia lo sono solo da un punto di vista economicistico (anch'esso miope, perché qualcuno quei soldi li incassa per un servizio, ma lasciamo stare) perché dal punto di vista del valore che si invoca la celebrazione dell'unità nazionale e della forma repubblicana sono un ingrediente simbolico fondamentale per il mantenimento e rafforzamento proprio di quel legame in nome del quale andrebbero abolite.

Il problema è che se molti invocano, pochi capiscono. Si rendono cioè conto del fatto che la triade con cui ho aperto il post - coesione, solidarietà e fiducia - non ha nulla di razionale, né di meccanico, nonostante il bel tentativo di Durkheim di trasformare la solidarietà in un tratto funzionale della società. Rinvia invece all'immenso continente simbolico ed emozionale che la cultura occidentale sta rimuovendo attivamente dalla sua coscienza da secoli, convinta della sua inesistenza nonostante ci si scontri a ogni piè sospinto e ne esca con le ossa rotte. Una cultura di parole vuote può anche illudersi che non credere in qualcosa equivalga a farla scomparire; il reale però, con tutte le sue dimensioni, non soffre affatto di questi anatemi ed è lì, variegato e intatto, a segnalare problemi e incapacità di comprensione. E stoltezza.

Il problema principale è che, non capendo più di cosa si tratta, non abbiamo nessuna idea di cosa fare. Sembra piuttosto evidente che il semplice ripetere le parole, nello stile magico-incantatorio di cui parla Maffesoli, non basta; siamo bravissimi a distruggere ogni singola componente della triade, ma del tutto inetti a rimediare ai danni causati. Danni che nello specifico vanno avanti da decenni, dall'affermazione incontrastata dell'economia come unica chiave interpretativa della realtà. Buffo che una disciplina che non riesce a interpretare neanche i processi che dovrebbero costituirne l'oggetto possa pretendere di capire anche il resto e ancora più buffo che le si dia retta, ma siamo una cultura buffa, non c'è che dire. Quindi? Riconoscere e affermare che, per quanto riguarda i valori e i rituali sociali, l'economia non ha voce in capitolo sarebbe un buon inizio. Svegliarsi dall'illusione che sia il lavoro a fondare la nostra convivenza e la nostra repubblica sarebbe un altro, come anche smetterla di pensarci come macchine e ingranaggi. Blade Runner insegna che le macchine vorrebbero tanto essere come noi, nonostante sappiano bene come siamo... Sarebbe ora che lo volessimo anche noi.

venerdì 27 aprile 2012

Alla corsara 4 - Antipolitica?

Stavo per rimettere una foto del trio ABC quando mi sono accorto che già l'avevo usata per il post scorso e mi è venuta l'ansia :) Così ho optato per questa accanto che spiega parecchio di ciò che volevo dire già di suo. Di recente si sente parlare molto di antipolitica, come accade di regola nei momenti in cui le forme coralline con le quali abbiamo di solito a che fare mostrano con più evidenza la loro senescenza pericolante. Qual è quindi la loro manovra di salvataggio? Identificarsi con l'idea di politica, così da delegittimare tutto quel che con loro non ha a che vedere. Politica però è qualcos'altro. La rabbia che porta all'associazione e alla critica. Il coraggio di promuovere una nuova visione della forma dello stato e dei valori che ne sono a fondamento. Il coraggio, ancora, di criticare le distorsioni che le Forme abbandonate dalla Vita che oggi ingombrano il campo non possono evitare di produrre, con le connesse posizioni di privilegio, cecità selettive e spiacevoli fissazioni a identificare il proprio misero interesse con la missione generale. Oggi poi è politica anche il semplice rifiuto. E' piuttosto facile chiedere critiche costruttive quando nessuno sa cosa sta succedendo e quelli che hanno qualche idea in proposito sono tenuti attentamente ai margini. E' facile e sicuro, perché le soluzioni preconfezionate non ci sono e nel mentre che si cerca di scovarle tutto rimane tale e quale.

E' abbastanza ovvio che in una situazione del genere la demagogia trovi ampio spazio. Il problema è forse che mi pare che sia uno spazio che ha già occupato da tempo - a occhio direi vent'anni, se non ricordo male - e che scoprirlo ora lascia un po' il tempo che prova. Oggi dobbiamo stare attenti ai demagoghi, dopo Bossi e Berlusconi, per tacere degli altri? Com'era la cosa del chiudere la stalla quando i buoi sono scappati? La struttura si autoprotegge e se ne fanno alfieri, anche inconsapevoli, coloro che l'abitano da sempre e per i quali costituisce l'unico orizzonte di comprensione. Non è certo attraverso la loro opera che si escogiteranno alternative. Né è probabile che queste abbiano subito successo, il che presterà nuovo fiato alle trombe dei cantori del bel tempo andato e a tutti coloro che preferiscono dormire in uno stabile decrepito piuttosto che rischiare qualche notte all'aperto mentre ne progettano uno migliore. Certo è che i vecchi strumenti, le vecchie procedure, le vecchie istituzioni si fondano su una visione dell'uomo errata, sia sul versante dell'economicismo che su quello del panrazionalismo e forse servirà anche una spallata rabbiosa per liberarsene!

sabato 14 aprile 2012

Alla corsara 3 - Forme ingombranti e cosa pubblica

Diceva Simmel, discutendo di quelli che chiamava "organi sociali", che "interessa ugualmente alla conservazione del gruppo che questi organi non si specializzino al punto da giungere ad una completa autonomia. Bisogna che si senta sempre con forza, se non altro in modo tacito, ciò che essi sono veramente, vale a dire, che essi non rappresentano in definitiva che delle astrazioni realizzate, che le interazioni individuali ne sono tutto il contenuto concreto […]. Se l’organo sviluppa eccessivamente la sua vita personale, se esso si preoccupa meno dell’interesse sociale e più del proprio, i suoi sforzi per conservarsi entreranno naturalmente in conflitto con quelli della società". Che è poi, in altre parole e qualche anno prima, la legge ferrea dell'oligarchia di Michels, della quale stanno infine iniziando a ricordarsi numerosi commentatori più o meno paludati. Peccato che il ragionamento si sia smarrito nei decenni intercorsi tra la sua formulazione e la serie di dolorosi risvegli che toccano in questo periodo alla società. E che, neanche a dirlo, quelli più smemorati - o del tutto ignoranti, seppur praticanti - siano i leader degli organi in questione. In questo caso siamo addirittura di fronte a un gioco di scatole cinesi in versione elitaria: il partito si configura come élite nei confronti del suo elettorato, ma al suo interno si incistano numerose altre élite più o meno evidenti, su su lungo la scala della dirigenza, fino a giungere a quelli che hanno letteralmente perso ogni contatto con la realtà.


Se la cosa era evidente - a chi si prendesse il disturbo di pensarci un attimo - già da mo' (come si dice a Roma), ora lo iato è talmente stridente da far presagire possibili lacerazioni più o meno dolorose. Sembra di aver a che fare con ragazzini viziati e capricciosi, soliti alla menzogna e convinti di essere molto, molto più furbi del resto del mondo; mentre una marachella, tuttavia, può essere corretta da qualche bel ceffone e solitamente non ha conseguenze gravi, in questo caso i tiri mancini sono sotto gli occhi di molti - tutti sarebbe chiedere troppo alla capacità di attenzione di molti nostri connazionali... - e incidono sulla carne viva. Ora, questo a esser proprio sinceri è uno dei segni della triste deriva che interessa il nostro gruppo sociale: esser governati per anni da buffoni, prostitute e faccendieri pare non sia stato un problema; trovarsi a essere lo zimbello dell'intera comunità internazionale neanche; dover pagare il conto lasciato da quella genìa oscena, invece, è insopportabile. Un conto che chiunque fosse men che stordito non poteva immaginare meno salato di quello che sta arrivando. E lo zelo rinnovato verso gli evasori, che sta stingendo sui ricchi in genere senza star troppo a sottilizzare sulle modalità dell'arricchimento stesso, può anche recare tracce di risveglio di coscienza civile, ma non è certo esente da invidia sociale e voglia di vendetta, presupposti deprimenti su cui iniziare una qualsiasi ricostruzione.


Sarebbe interessante ascoltare, tanto per cambiare, una qualche autocritica non tanto da parte dei governanti - che temo siano ormai irrecuperabili - ma da quelli che col malvivere quotidiano hanno permesso che simili nullità arrivassero ai vertici e ci restassero senza rendersi conto dei mille motivi per cui dovrebbero ritirarsi dalle scene e trascorrere gli ultimi giorni in espiazione possibilmente sofferente. Inutile prendersela col vertice quando è tutta la struttura a fondarsi su equivoci sempre più insopportabili, su scambi umanamente inaccettabili divenuti prassi quotidiana. A parte questo, tuttavia, è come sempre il caso di applicare la propria "follia controllata" à la don Juan e chiedersi se c'è un'ipotesi di rimedio. A costo di parere inattuale (costo che d'altronde sono abituato a pagare :) direi che la strada maestra passa per la drastica limitazione della possibilità per chiunque di vivere un'intera vita nella politica, perdendo così di vista il carattere di servizio dell'incarico e dell'attività. Due mandati al massimo e una scadenza temporale da contratto a tempo determinato per chi si occupa, in queste organizzazioni, dell'amministrazione. E già che ci sono dirò di più: alla faccia dell'iperspecializzazione, sarebbe il caso che ogni mestiere prevedesse anni sabbatici e interruzioni, con fasi di apprendistato altrove per liberarsi dalle incrostazioni che qualunque forma, per quanto ancora pervasa di vita, non può non lasciare. Per dirla con Maffesoli, dovremmo pensare a un Carnevale molto più lungo e articolato, capace di contrastare la paralisi della routine e consentire partenze e ritorni entusiasmanti!

giovedì 23 febbraio 2012

Alla corsara 2 - Democrazia ed ecologia dell'azione

E' di questi giorni l'ennesima bagarre mediatica sull'articolo 18, sulla difesa ad oltranza di lavoratori poco o nullafacenti da parte delle sigle sindacali. Conserviamolo per le vere discriminazioni, si dice, ma non ne facciamo lo scudo per furbi o variamente malfattori... E' una tematica spinosa, visto l'evidente carattere ideologico dell'intera questione, ma si presta bene a esemplificare alcuni problemi insiti nel nostro modo di ragionare e muoverci nel mondo. In primis c'è da sottolineare l'affinità formale del discorso con un'altra vexata quaestio che ci allieta sovente: l'immunità dei parlamentari e delle cariche dello stato. E' a tutti evidente che lo spirito della norma non può non essere condiviso: mettere al riparo i rappresentanti degli elettori da censure o peggio, imprigionamenti o torture è sacrosanto. L'afflato ideale e il confronto con la dura realtà di un momento storico ne sono alla base, ne costituiscono la carne e il sangue; eppure l'opera della ragione - quella fantastica prostituta cui diamo tanto retta - riesce a riplasmarlo in schermo per corruzioni e collusioni, in strumento di potere al servizio di un'élite smunta e arroccata sui suoi privilegi. Schermaglie di retroguardia vengono ricoperte da un tono quasi sacrale, trasformate in una caricatura indegna.

C'è giusto un problema di indignazione, che pur tenuta a freno mi spinge - noto - a un'aggettivazione poco sobria. A parte questo, però, ci sono altri ordini di problemi, meno evidenti ma sostantivi. Da una parte non si può non registrare una latitanza dell'opinione pubblica per la quale è utile rimandare al Sennett de Il declino dell'uomo pubblico, testo di quarant'anni fa che pare scritto ieri e tratteggia con notevole perizia il successivo Homo Videns di Sartori, mettendo però in luce un movimento geologico di processi culturali del quale dovremo presto o tardi prendere coscienza. Dall'altra, invece, c'è un problema di quadri di comprensione e messa in forma del reale: l'approccio aut/aut con cui ci muoviamo nel mondo con la grazia del classico elefante nella cristalleria ha dei costi che in questi casi si danno a vedere, come anche la perenne aspirazione all'universale. Questa, già di suo, impedisce di pensare la possibilità che sotto una medesima fattispecie convivano casi empiricamente diversi o anche formalmente simili, ma contenutisticamente diversi se non opposti. Ogni attacco al parlamentare diventa così un potenziale cavallo di Troia attraverso cui poteri oscuri cercano di estendere un controllo infausto sugli organi sovrani. Anche quando i processi di selezione sono manifestamente fallimentari e la semplice decenza suggerisce tutt'altro registro. La decenza, però, come il senso comune soffre di una stigmatizzazione miope, di un alone di non razionalità che ne ha fatto un sentimento e un comportamento non più in auge, del quale quasi ci si dovrebbe vergognare. Un altro dei tributi che paghiamo al feticismo per il sapere esperto e alle tante espropriazioni che ne derivano, espropriazioni che rischiano di svuotare di senso la stessa democrazia...

L'universale non conosce sfumature, né contesti, né complessità. E il terzo escluso ne discende e vi si confonde, rafforzando la partigianeria. Mette a disposizione sia di chi è in buona fede che degli altri una catena di deduzioni automatiche per le quali, in ultima istanza, è meglio turarsi il naso una o più volte che rischiare di mettere a rischio una conquista sofferta e idealmente ineccepibile. Non è che non ci si renda conto dell'incommensurabilità tra l'idea e il caso concreto, non sempre almeno. Per quanto sempre meno persuasi di aver titolo a giudicare, l'evidenza spesso si impone. Il nostro problema, moderni Procuste, è che tra l'ideale e il quotidiano preferiamo sempre il primo e quindi il politico mafioso o il lavoratore disonesto si riparano dietro un'aspirazione, svuotandola mentre se ne fanno gioco, spesso senza rendersene conto. Come non se ne rendono conto quelli che in suo nome difendono l'indifendibile. Se riuscissimo ad accettare la nostra fallibilità su ogni piano, accetteremmo anche l'errore come parte coessenziale di ogni processo e sapremmo sceverare senza strumentalizzazioni e populismi. Se...


domenica 19 febbraio 2012

Alla corsara 1 - Scuola e stipendi

Ho sempre visto come una delle dimensioni centrali della mia riflessione e del mio insegnamento la messa in luce degli aspetti non ovvi della quotidianità e l’insinuazione del dubbio che anche quelli più “scontati” potessero di fatto non esserlo. Un tema sul quale ogni tanto si appunta l’attenzione dei media, lo stipendio dei docenti, si presta molto bene a esemplificare questo aspetto: è un argomento dove il peso del luogo comune e del pregiudizio è tanto preponderante da causare contraddizioni macroscopiche a livello programmatico, tra le quali l’opposizione tra il mantra dell’importanza della ricerca e della formazione e il non cale assoluto nel quale vengono tenuti gli operatori che dovrebbero occuparsene.
Il problema è quello dell’immagine dell’insegnante e della brutale scorciatoia economica che permetterebbe, almeno in parte, di sanarlo. Vediamo più da vicino quest’immagine. L’insegnante, anche per motivi storici di selezione in Italia, è quasi sempre donna e spesso di mezza età, è vista come colei che discorre più o meno sensatamente con la sua classe per qualche ora al mattino (3,5 se non erro) per poi dedicarsi, nel resto del tempo, ad attività prossime a quelle delle casalinghe – altro terreno sul quale una seria proposta politica alternativa sarebbe ben più che auspicabile, dopo una profonda revisione di stereotipi e pregiudizi. Gode di più di due mesi di ferie e, essendo titolare del secondo stipendio di casa, non si vede cos’abbia da lamentarsi. Già a questo punto, però, ci troviamo davanti a un aspetto della contraddizione di cui parlavo prima: può essere che un processo cardine dell’assetto del tessuto sociale come il processo di socializzazione – di cui la scuola è agenzia fondamentale – sia affidato a questo universo di zie benevole? E che possa esser messo in atto con tanta nonchalance, con tre ore e mezza al giorno? Mi pare un contrasto stridente, sul quale occorre ragionare cercando di sottrarsi all’influsso dell’etichetta e di “incarnare” l’importanza astratta che si attribuisce all’attività nella prassi di vita dei suoi specialisti, perché a tutti gli effetti il processo sono loro. È concetto comune, tra gli addetti ai lavori, che un’ora di lezione debba essere moltiplicata per tre in termini di impegno lavorativo, per il tempo che occorre a prepararla e per le attività didattiche connesse (correzione compiti, progettazione esercitazioni, etc.); a questo si dovrebbero poi sommare la miriade di impegni burocratico-organizzativi che un’istituzione tutt’altro che moderna impone costantemente e con tendenza all’aumento, come consigli di ogni genere, redazione di piani, rapporti e giudizi; il rapporto con i genitori, che grazie all’immagine di cui stiamo discorrendo è sempre più difficile; l’interrogativo perenne dei casi difficili presenti in classe, la domanda sul comeriuscire a catturare l’attenzione degli allievi in circostanze sempre più complesse… Questo pertiene al ruolo insegnante, questa è la vita prevista di chi sceglie uno dei mestieri più difficili e importanti per noi tutti, non tre ore al giorno di chiacchiere.


Questo però – e qui il problema si diversifica – è ciò che non si vede, un’attività che non genera prodotti e che spesso può apprezzarsi, in coloro che ne sono oggetto, dopo anni. Entra in gioco un altro aspetto dell’ideologia col quale fare i conti: il lavoro è quello che produce cose, oggetti, merci, quello che è quantificabile e immediatamente constatabile. Il nocciolo della visione aziendalista che trova troppo ascolto anche nell’attuale sinistra. Visione del mondo che trova nelle professioni intellettuali un grosso ostacolo, perché è difficile stimare l’importanza di un’ora di lezione o di una pagina, di una riflessione e soprattutto la sua capacità di generare reddito: tanto vale, in linea di massima, considerarle tutte ciarle prive di senso e trattare di conseguenza quelli che se ne occupano. Questo discorso deriva da una semplificazione brutale in cui la qualità è ridotta a quantità e dove il valore dell’innovazione e dell’informazione – parole chiave dell’epoca – viene ridotto a un miope conto profitti e perdite di brevissimo periodo. Aggiungerei anche questa alle riflessioni sulla sinistra: sinistra dovrebbe essere anche liberarsi dall’unico metro di giudizio della produttività immediata, dalla riduzione di ogni cosa all’ottica economica, di cui espressioni come “capitale umano” sono una sottile e pervasiva manifestazione. L’umano è molto più di una qualunque forma di capitale, è autonomia di pensiero, solidarietà, spessore etico, accanto, insieme, alla capacità performativa che è invece il solo criterio correntemente accettato. E tutte queste dimensioni sono la posta in gioco dell’operato della scuola.


Mi sembra già di sentire: “Ma come, sei contro l’economicismo e parli dell’importanza dello stipendio degli insegnanti? Dovresti concentrarti su cose diverse, simboliche, meno pacchiane…” Per carità, amerei poterlo fare, come amerei vivere in un altro mondo. Il problema è che il mondo a disposizione è questo e anche la cultura che lo muove. Se vogliamo realmente iniziare a modificare lo stato delle cose, dovremo operare radicalmente su quella cultura, usando i suoi strumenti in modo diverso, creativo, innovativo, per esporne le contraddizioni e generare un corto circuito che apra le finestre e faccia entrare aria nuova. Quando si riconosce a una professione svalutata una stima monetaria (un valore simbolico, perché il denaro è anche e forse soprattutto agente simbolico!) incongruente al riconoscimento generale non può non scaturire l’interrogativo: perché quei nullafacenti si trovano d’un tratto tutti quei soldi? Forse non sono nullafacenti, forse c’è qualcos’altro in ballo che non le tre ore al giorno… Tony Blair non ha fatto altro quando ha rivisto radicalmente gli stipendi e incoraggiato professionisti di altri settori a passare all’insegnamento: ha dato loro visibilità e stima sociale e una retribuzione adeguata per cercare di arginare la catastrofe educativa che minaccia il Regno Unito. È chiaro che questo passo si inserisce in un progetto generale di rinnovamento dell’insegnamento: potenziamento delle strutture, campagne comunicative, messaggi istituzionali coerenti, misure economiche d’impatto e poi, necessariamente, misure volte a far sì che la minoranza malfacente si adegui a uno standard minimo o trovi un altro impiego. Tenendo comunque a mente che questa, come altre professioni, presenta aspetti a mio parere non valutabili e tensioni interne che da fuori si immaginano difficilmente: non a caso gli insegnanti sono tra i più soggetti alla famigerata sindrome di burn-out, dove la dimensione del riconoscimento sociale gioca un ruolo molto significativo, ma anche l’empatia e la condivisione sono di grande e non percepita importanza.

domenica 12 febbraio 2012

Io sono Labirinto

Però, se siamo Minotauro, siamo anche il vittorioso Eroe solare. Anche a noi, Eros ha fatto avere un lungo filo che ci condurrà fino al mostro e quando lo avremo vinto con la nostra spada lucente, quel filo ci farà tornare alla luce e lasceremo indietro, nell'oscurità eterna, il corpo ormai immobile della bestialità debellata. L'amore ci condurrà fino in fondo, sino alle ultime caverne dei nostri sentimenti meno umani e, uccisa l'animalità, ci farà tornare sotto il cielo lucente. Quale simbolo più bello di questo?
Ma, dopo la vittoria, torna ancora nel nostro cuore sensibile la pietà per quella morte, per ogni morte; e forse anche una nostalgia per le tenebre abbandonate, un oscuro sentimento di tenerezza per la vita mostruosa che abbiamo distrutto in noi e abbandonato. Nella notte in cui è stato celebrato quel sacrificio, il lato infernale del nostro essere piange sul corpo del mostro. La sua morte lo innalza e glorifica. Ieri, oggi: validità profonda che è come l'essenza - simbolo e segno - del mito vivente.

P. Santarcangeli, Il libro dei labirinti, Milano, Frassinelli, 1984, p. 4.

sabato 4 febbraio 2012

Walking/reading

The labyrinth offers us the possibility of being real creatures in symbolic space. I had thought of a children's story as I walked, and the children books that I loved best were full of characters falling into books and pictures that became real, wandering through gardens where the statues came to life and, most famously, crossing over to the other side of the mirror, where chess pieces, flowers and animals all were alive and temperamental. These books suggested that the boundaries between the real and the represented were not particularly fixed, and magic happened when one crossed over. In such spaces as the labyrinth, we cross over, we are really traveling, even if the destination is only symbolic, and this is in an entirely different register than is thinking about traveling or looking at a picture of a place we might wish to travel to. For the real is in this context nothing more or less than what we inhabit bodily. A labyrinth is a symbolic journey or a map of the route to salvation, but it is a map we can really walk on, blurring the difference between map and world. If the body is the register of the real , then reading with one's feet is real in a way reading with one's eyes alone is not. And sometimes the map is the territory (R. Solnit, Wanderlust, London, Verso, 2002, p. 70).
Per quanto si possa essere scarsi nella meditazione e nelle pratiche introspettive, alla lunga provarci paga e lo zen ti mostra quanto sarebbe meglio se riuscissi ad applicarlo più spesso, alla faccia di autorappresentazioni e socializzazioni varie. Giorni fa, su Aforismatica, ragionavo di sfondamenti tra realtà e immaginazione ad opera di strani libri e poi mi ritrovo con questa bella suggestione della Solnit, che tra l'altro mi permette di rimanere vicino ai miei propositi di scrivere il più possibile in inglese, almeno su questo blog. La questione è molto interessante, perché il suo ragionare di labirinti e giardini mostra quanto la nostra cultura si sia sentita a suo agio, a lungo, con commistioni di piani che oggi troviamo a dir poco sconvenienti, intenti come siamo a fugare tutto ciò che non è concreto dalle nostre vite. Senza accorgerci che così fughiamo noi stessi e ci costringiamo in un inferno di noia e grigiore. Le idee chiare e distinte del buon Cartesio, nella loro pretesa sovranità, si rivelano per quel che sono, uno degli incubi di una ragione ormai irragionevole e per di più incoerente e incapace di sorvegliare perfino i suoi territori d'elezione. Perché, come dicevo sull'altro blog, un libro vero scritto da un personaggio inesistente non può non generare una vertigine e un dubbio, seppure momentaneo. Spinge necessariamente a interrogarsi sul confine tra realtà e finzione e sul carattere della finzione, che è anche immaginazione ed è tanto potente da causare la comparsa, nella realtà quotidiana, di qualcosa di soltanto immaginato fino a poco prima. Che il movente sia economico poco importa, l'effetto lo sorpassa e fa impallidire al di là di ogni pretesa di controllo razionale e riapre i territori dove immaginare è lecito, perfino immaginare un altro modo di vivere che prescinda dall'economia.
La Solnit, però, pone anche altri interrogativi. La pratica di percorrere il labirinto, come seguire la Via Crucis, si fonda sul movimento contrario a quello di cui parlavo. Significa penetrare fisicamente - con quello che riteniamo essere il più materiale dei nostri tratti, la corporeità, che dovrebbe tenerci coi piedi per terra! - in uno spazio altro, vivere il simbolo e lasciarcene influenzare. Il che vuole anche dire che lo spazio stesso non è ovunque uguale e privo di qualità, come insegna l'onnipresente Cartesio, ma può variare, aprirsi a livelli diversi di essere, cosicché il cammino si dipana allo stesso tempo sul selciato di una cattedrale e nel tempo di una vita, lungo un sentiero di montagna e verso il Golgota. Dice ancora la Solnit:

Part of what makes roads, trails and paths so unique as built structures is that they cannot be perceived as a whole all at once by a sedentary onlooker. They unfold in time as one travels along them, just as a story does as one listens or reads, and a hairpin turn is like a plot twist, a steep ascent a building of suspense to the view at the summit, a fork in the road an introduction of a new storyline, arrival the end of the story. Just as writing allows one to read the words of someone who is absent, so roads make it possible to trace the route of the absent (ivi, p. 72).
A voler applicare il ragionamento al libro di Castle, è lecito chiedersi dove porta il viaggio della sua lettura, in quale dimensione del multiverso si segue il cammino del suo fantomatico autore. E ancora, quanto si è persa la nostra abilità simbolica se non sappiamo riconoscere la meravigliosa qualità del leggere o del camminare...