Ho buttato lì un paio di citazioni su Aforismatica, ma credo sia il caso di tornarci sopra. Perché in Birdman c'è veramente molto, forse perfino troppo. E questa è una delle ragioni per cui ho lasciato passare un po' di tempo prima di rimetterci mano. In particolare la cosa che più mi ha incuriosito e creato difficoltà di comprensione è lo sdoppiamento qui sopra, tra l'attore di teatro e il personaggio un po' trash che dà il titolo al film. Tra cultura alta e cultura bassa, uno potrebbe dire. Michael Keaton ha impersonato per un certo periodo il pennuto supereroe e grazie a lui è diventato popolare. Il problema però è che "la popolarità è la cuginetta zoccola del prestigio", come osserva a un certo punto Edward Norton, è passeggera e lascia l'amaro in bocca. E un desiderio di redenzione, di ritorno alla purezza originaria che dovrebbe attuarsi a Broadway, grazie alla messa in scena di Di cosa parliamo quando parliamo d'amore. Fin qui sembrerebbe perfino una storia già sentita, arte vs mercato, dimensione etica vs prostituzione al pubblico, eccetera. Ma c'è un però...
RIggan i superpoteri ce l'ha sul serio! Almeno telecinesi e levitazione, poi si scopre anche volo. Come si dice a Roma, mettice 'na pezza! E non si tratta di sogni ad occhi aperti, ci sono testimoni, c'è un'aria di passaggio ad altri ordini di realtà che costringe a correggere il tiro sullo spettacolo e su tutto quello che porta con sé: rapporti amorosi, relazioni filiali, rischi economici, rinunce. Da cosa si redime, Riggan? E perché è un supereroe vero, nonostante la finzione da cui rifugge? E' decisamente un bel casino, una subtrama spiazzante in un film che sembrerebbe altrimenti anche lui un adattamento teatrale, in un caleidoscopio alla Borges di finzione nella finzione nella finzione... Come dicevo, forse troppa carne al fuoco, ma per un blog che vuole cercare piste per l'immaginario un'occasione ghiotta, anche se difficile da sfruttare. Perché la lettura di questo strano intreccio sembra in qualche modo distorta da un eccesso di ragione, di logos, come se invece di lasciare libero il pensiero mitico l'avessero voluto imbrigliare, rendere didascalico. Vediamo: l'alter ego pennuto di Riggan vuole convincerlo a ricominciare con i sequel, ad abbandonare le pretese artistiche in favore della notorietà di bassa lega. Non ha quindi a che fare con la sfera esoterica verso cui si incammina il protagonista; o potrebbe rappresentarne una versione depotenziata, pervertita dai miti d'accatto dell'oggi: denaro facile se si è disposti a vendere l'anima e un fascino di princisbecco. Direi, a naso e in prima approssimazione, che in gioco c'è proprio l'anima e che l'insieme è una prova da cavaliere che Riggan in qualche modo supera, non a caso con qualcosa che si avvicina moltissimo al supremo sacrificio. Ironicamente, questo funziona benissimo anche in campo commerciale e mediatico, tanto da guadagnargli un trionfo in seguito alla fatidica prima. Trionfo al quale, però, egli rinuncia. E' già oltre 😄
Ciottoli
martedì 31 gennaio 2017
Birdman 2
martedì 17 gennaio 2017
L'illusione della stabilità
Fondare. Af-fondare. Ri-fondare. S-fondare.
Oppure fondere, d'altronde il passo è breve.
Fondere. Con-fondere. Dif-fondere. Ri-fondere. Ef-fondere.
Come fai a fidarti di un verbo così, che significa una cosa e il suo contrario? Di un verbo contraddittoriale nell'animo.
Che poi mica è solo il verbo - e poi lo so, magari a livello etimologico sono fuori strada, ma non mi interessa. Questi non sono pensieri da specialisti, sono rêveries, tracce labili, intuizioni del primordiale nascosto nella lingua.
Contraddittoriale, dicevo. Da una parte stabilizza, dall'altra inghiotte. Da una parte roccia, dall'altra gli abissi oceanici. "House built on a rock foundation it will stand oh yeah!" e intanto sotto si aprono caverne oscure. E tu ci riprovi e ancora, dal solido al liquido: la roccia s'è fusa, s'è fatta lava. Ora brucia, perfino. E per altri aspetti è aria, che si spande all'intorno, profumata. Una cornucopia di aromi, note di elfi leggeri, leggiadri, ingannevoli.
Fondare e fondere, equivoco e saggezza. Cos'è d'altronde il gesto della fondazione se non un atto titanico, l'affronto di un visionario testardo? Millenni a cercare l'ultimo fondamento, l'inviolabile, l'indivisibile.
L'atomo.
E poi la beffa cosmica. O la lezione magnifica, il vero dono di Dio. Altro che bosone, senza offesa per Higgs.
L'atomo non fonda nulla. Sfonda, però, e confonde. Onda o particella, materia, energia, qualcos'altro? Dove vanno gli elettroni durante i salti? E perché le cose sembrano solide, se sono fatte in ultima analisi di vuoto? Annidato, celato, in agguato.
Che poi, di nuovo e infine, se prendi il presente indicativo il gioco è fatto. Fondo.
La beffa e la rivelazione. La coincidentia oppositorum. Non l'uno e l'altro, lo stesso.
Mentre pensi di fare uno, li fai entrambi. Dividi e mescoli, separi e unisci.
Di fatto, lo yoga in un verbo.
Oppure fondere, d'altronde il passo è breve.
Fondere. Con-fondere. Dif-fondere. Ri-fondere. Ef-fondere.
Come fai a fidarti di un verbo così, che significa una cosa e il suo contrario? Di un verbo contraddittoriale nell'animo.
Che poi mica è solo il verbo - e poi lo so, magari a livello etimologico sono fuori strada, ma non mi interessa. Questi non sono pensieri da specialisti, sono rêveries, tracce labili, intuizioni del primordiale nascosto nella lingua.
Contraddittoriale, dicevo. Da una parte stabilizza, dall'altra inghiotte. Da una parte roccia, dall'altra gli abissi oceanici. "House built on a rock foundation it will stand oh yeah!" e intanto sotto si aprono caverne oscure. E tu ci riprovi e ancora, dal solido al liquido: la roccia s'è fusa, s'è fatta lava. Ora brucia, perfino. E per altri aspetti è aria, che si spande all'intorno, profumata. Una cornucopia di aromi, note di elfi leggeri, leggiadri, ingannevoli.
Fondare e fondere, equivoco e saggezza. Cos'è d'altronde il gesto della fondazione se non un atto titanico, l'affronto di un visionario testardo? Millenni a cercare l'ultimo fondamento, l'inviolabile, l'indivisibile.
L'atomo.
E poi la beffa cosmica. O la lezione magnifica, il vero dono di Dio. Altro che bosone, senza offesa per Higgs.
L'atomo non fonda nulla. Sfonda, però, e confonde. Onda o particella, materia, energia, qualcos'altro? Dove vanno gli elettroni durante i salti? E perché le cose sembrano solide, se sono fatte in ultima analisi di vuoto? Annidato, celato, in agguato.
Che poi, di nuovo e infine, se prendi il presente indicativo il gioco è fatto. Fondo.
La beffa e la rivelazione. La coincidentia oppositorum. Non l'uno e l'altro, lo stesso.
Mentre pensi di fare uno, li fai entrambi. Dividi e mescoli, separi e unisci.
Di fatto, lo yoga in un verbo.
Here we go again
Due righe, tanto per non ripartire senza un minimo di introduzione. Sono più di tre anni che non scrivo in questo blog. Non per cattiveria, più che altro per esaurimento delle energie in coincidenza con un periodo di vita piuttosto accidentato. E tra l'altro devo ammettere che non mi è proprio chiaro perché l'abbia creato. Penso di essermi innamorato del titolo e poi... 😄 Be', comunque: il periodo non è granché diverso dagli ultimi tre anni, forse perfino più complicato, ma bollono in pentola cose interessanti e forse gli appunti al limite del delirio ad esse relativi qui potrebbero starci bene. Anche perché stavolta non saprei proprio dove altro metterli! Nessuna linea editoriale, quindi, ma una ripresa zen di quel che ha - o potrebbe avere a che fare - con l'immaginario.
lunedì 18 febbraio 2013
Noblesse oblige
Stavolta c'è bisogno di una piccola introduzione. Il post precedente è una lettera da me scritta al direttore di un noto periodico a proposito di alcune mie opinioni su un loro servizio. Constato con gioia che una volta tanto la bottiglia ha trovato il destinatario prima di anni di abbandono su una spiaggia :) Pubblico quindi qui la risposta dell'autore del servizio e, di seguito, la mia. Tutto sommato, c'è sempre speranza...
gentile professor D'Andrea,
il direttore mi ha trasmesso le sue considerazioni sul nostro servizio sull'università.
La ringrazio molto per l'attenzione e certamente lei ha ragione quando lamenta la scarsa attenzione per realtà come la sua.
purtroppo, però, quando lavoriamo su un tema ampio come l'università italiana siamo costretti, il più delle volte, a muoverci con le statistiche e con le valutazioni fatte dagli esperti che a loro volta valutano i dati globali. E lei stesso riconosce come il moltiplicarsi delle sedi universitarie non sia sempre stato limpido e di successo come l'esperienza umbra che lei ha voluto gentilmente raccontarci.
lei concorderà che spesso, nel decidere l'apertura di una sede distaccata, si sono seguiti criteri che hanno poco a che fare con la missione dell'università.
speriamo di poter fare meglio, ma, ci creda, l'impegno è massimo. così come speriamo che vorrà ancora avere ancora la volontà di leggerci e la pazienza di correggerci quando sbagliamo
molto cordialmente
Buonasera,
prima di tutto la ringrazio per la pronta risposta, che conferma la stima che nutro per la vostra équipe. So bene come si lavora in molti casi e immagino che spesso sembri l'unico modo accettato e accettabile di fare. Vivendo però nel mondo qui fuori, constato altrettanto spesso che tra i servizi della stampa, i pareri degli esperti e la realtà delle istituzioni e della lotta quotidiana che insieme a molti colleghi di valore di fatto affrontiamo ogni giorno c'è uno scarto sempre più ampio, uno scarto che non è più giustificabile semplicemente con le logiche del tempo e le richieste di questo o quell'apparato. Come sempre, gli approcci dovrebbero convivere, l'attenzione al dato e al globale sposarsi con la ricerca delle sfumature e delle peculiarità di un mondo molto più complesso delle nostre rappresentazioni e dei trucchi che mettiamo in atto per cercare di regalargli un ordine. Come dicevo al suo direttore, siete tra i pochi dai quali potrei aspettarmi una simile operazione coraggiosa e inattuale. La sua mail mi dà speranza.
Saluti e buon lavoro,
gentile professor D'Andrea,
il direttore mi ha trasmesso le sue considerazioni sul nostro servizio sull'università.
La ringrazio molto per l'attenzione e certamente lei ha ragione quando lamenta la scarsa attenzione per realtà come la sua.
purtroppo, però, quando lavoriamo su un tema ampio come l'università italiana siamo costretti, il più delle volte, a muoverci con le statistiche e con le valutazioni fatte dagli esperti che a loro volta valutano i dati globali. E lei stesso riconosce come il moltiplicarsi delle sedi universitarie non sia sempre stato limpido e di successo come l'esperienza umbra che lei ha voluto gentilmente raccontarci.
lei concorderà che spesso, nel decidere l'apertura di una sede distaccata, si sono seguiti criteri che hanno poco a che fare con la missione dell'università.
speriamo di poter fare meglio, ma, ci creda, l'impegno è massimo. così come speriamo che vorrà ancora avere ancora la volontà di leggerci e la pazienza di correggerci quando sbagliamo
molto cordialmente
Buonasera,
prima di tutto la ringrazio per la pronta risposta, che conferma la stima che nutro per la vostra équipe. So bene come si lavora in molti casi e immagino che spesso sembri l'unico modo accettato e accettabile di fare. Vivendo però nel mondo qui fuori, constato altrettanto spesso che tra i servizi della stampa, i pareri degli esperti e la realtà delle istituzioni e della lotta quotidiana che insieme a molti colleghi di valore di fatto affrontiamo ogni giorno c'è uno scarto sempre più ampio, uno scarto che non è più giustificabile semplicemente con le logiche del tempo e le richieste di questo o quell'apparato. Come sempre, gli approcci dovrebbero convivere, l'attenzione al dato e al globale sposarsi con la ricerca delle sfumature e delle peculiarità di un mondo molto più complesso delle nostre rappresentazioni e dei trucchi che mettiamo in atto per cercare di regalargli un ordine. Come dicevo al suo direttore, siete tra i pochi dai quali potrei aspettarmi una simile operazione coraggiosa e inattuale. La sua mail mi dà speranza.
Saluti e buon lavoro,
Un messaggio in bottiglia
Egregio direttore buongiorno,
sono Fabio D'Andrea, docente di Sociologia all'ateneo di Perugia e vostro lettore da non so più quanto. Apprezzo la gran parte del vostro lavoro, in particolare la serietà con la quale vi ostinate ad affrontare un mondo che di serio non ha quasi più nulla, ma a volte - in particolare in casi dei quali ho esperienza di prima mano - non posso non notare una spiacevole tendenza a replicare gli errori e i difetti che imputate, a ragione, ad altri. Di solito lascio correre; in altri casi, come questo, provo a far finta che una lettera possa fare una qualche differenza.
Si parla prevedibilmente di università, nello specifico del pezzo intitolato mi pare "Salvare l'università?", dove le autrici, oltre a definire simpaticamente le lauree del mio settore come "fabbriche di disoccupati", si interrogano sulle oscure ragioni per cui si siano attivate così tante sedi decentrate in giro per l'Italia. Lungi da me sostenere che si è sempre trattato di operazioni limpide o di successo; fatto sta, tuttavia, che io insegno non solo a Perugia, ma anche nella sede distaccata di Narni, dove è stato attivato il Corso di laurea in Scienze dell'investigazione e della sicurezza. Le ragioni, non oscure, della sua apertura stanno nell'intesa col Comune di Narni e la provincia di Terni al fine di varare un'operazione capace di dare nuova linfa e vitalità al centro storico di Narni. Operazione che ad oggi ha permesso l'apertura di un gran numero di nuovi esercizi commerciali, il recupero - attraverso fondi pubblici e comunitari - di palazzi e monumenti abbandonati da decenni e l'avvio di un corso di studi che da sei anni mantiene una media di iscrizioni di tutto rispetto (attorno alle 500 annue) e ha alte percentuali di ingresso nel mondo del lavoro dopo la laurea. Peccato che nessun professionista della carta stampata sia mai venuto a trovarci o abbia cercato, in giro per l'Italia, le realtà che funzionano nell'università, adeguandosi a triti luoghi comuni e aspettando - come accade sempre più spesso - che le notizie lo vadano a cercare e anche in quel caso lo trovino con difficoltà. Criticate spesso i politici per la prassi dei tagli lineari; potreste cominciare a dare il buon esempio evitando voi stessi questa prassi insensata!
A conferma di quanto appena detto, richiamo la Sua attenzione su un altro caso. Tempo addietro ho letto un articolo sulla famosa formazione 2.0, nel quale si osservava, di nuovo a ragione, che gli Stati Uniti e altre nazioni sono all'avanguardia in questo campo, tanto da mettere online la gran parte dei corsi consentendo così a chiunque di tracciare il proprio percorso di apprendimento. Succede anche in Italia; i miei corsi, ad esempio, sono online, a libero accesso, da dieci anni: ho molti studenti extrauniversitari che mi seguono con grande soddisfazione reciproca. Loro mi hanno trovato senza grandi problemi, di giornalisti non ho notizia. Capisco che secondo le graduatorie la nostra Università è risibile, ma sarebbe opportuno ricordare che ai primi posti di quelle classifiche ci sono, non a caso, quelli che hanno inventato e stilato le classifiche stesse e che incarnano un modello di cultura che si potrebbe legittimamente criticare, come si sta facendo da più parti. Lei mi dirà: avrebbe potuto avvisarci. Io le risponderò: non è il mio ruolo ed è una prassi che trovo insopportabile e alla quale non ho intenzione di adeguarmi. Per esigere novità la si deve praticare per primi. Mi piacerebbe vedervi riprendere qualche vecchio modo di fare professionale di cui si sente la mancanza.
La saluto e resto in attesa di un suo riscontro.
Fabio D'Andrea
sono Fabio D'Andrea, docente di Sociologia all'ateneo di Perugia e vostro lettore da non so più quanto. Apprezzo la gran parte del vostro lavoro, in particolare la serietà con la quale vi ostinate ad affrontare un mondo che di serio non ha quasi più nulla, ma a volte - in particolare in casi dei quali ho esperienza di prima mano - non posso non notare una spiacevole tendenza a replicare gli errori e i difetti che imputate, a ragione, ad altri. Di solito lascio correre; in altri casi, come questo, provo a far finta che una lettera possa fare una qualche differenza.
Si parla prevedibilmente di università, nello specifico del pezzo intitolato mi pare "Salvare l'università?", dove le autrici, oltre a definire simpaticamente le lauree del mio settore come "fabbriche di disoccupati", si interrogano sulle oscure ragioni per cui si siano attivate così tante sedi decentrate in giro per l'Italia. Lungi da me sostenere che si è sempre trattato di operazioni limpide o di successo; fatto sta, tuttavia, che io insegno non solo a Perugia, ma anche nella sede distaccata di Narni, dove è stato attivato il Corso di laurea in Scienze dell'investigazione e della sicurezza. Le ragioni, non oscure, della sua apertura stanno nell'intesa col Comune di Narni e la provincia di Terni al fine di varare un'operazione capace di dare nuova linfa e vitalità al centro storico di Narni. Operazione che ad oggi ha permesso l'apertura di un gran numero di nuovi esercizi commerciali, il recupero - attraverso fondi pubblici e comunitari - di palazzi e monumenti abbandonati da decenni e l'avvio di un corso di studi che da sei anni mantiene una media di iscrizioni di tutto rispetto (attorno alle 500 annue) e ha alte percentuali di ingresso nel mondo del lavoro dopo la laurea. Peccato che nessun professionista della carta stampata sia mai venuto a trovarci o abbia cercato, in giro per l'Italia, le realtà che funzionano nell'università, adeguandosi a triti luoghi comuni e aspettando - come accade sempre più spesso - che le notizie lo vadano a cercare e anche in quel caso lo trovino con difficoltà. Criticate spesso i politici per la prassi dei tagli lineari; potreste cominciare a dare il buon esempio evitando voi stessi questa prassi insensata!
A conferma di quanto appena detto, richiamo la Sua attenzione su un altro caso. Tempo addietro ho letto un articolo sulla famosa formazione 2.0, nel quale si osservava, di nuovo a ragione, che gli Stati Uniti e altre nazioni sono all'avanguardia in questo campo, tanto da mettere online la gran parte dei corsi consentendo così a chiunque di tracciare il proprio percorso di apprendimento. Succede anche in Italia; i miei corsi, ad esempio, sono online, a libero accesso, da dieci anni: ho molti studenti extrauniversitari che mi seguono con grande soddisfazione reciproca. Loro mi hanno trovato senza grandi problemi, di giornalisti non ho notizia. Capisco che secondo le graduatorie la nostra Università è risibile, ma sarebbe opportuno ricordare che ai primi posti di quelle classifiche ci sono, non a caso, quelli che hanno inventato e stilato le classifiche stesse e che incarnano un modello di cultura che si potrebbe legittimamente criticare, come si sta facendo da più parti. Lei mi dirà: avrebbe potuto avvisarci. Io le risponderò: non è il mio ruolo ed è una prassi che trovo insopportabile e alla quale non ho intenzione di adeguarmi. Per esigere novità la si deve praticare per primi. Mi piacerebbe vedervi riprendere qualche vecchio modo di fare professionale di cui si sente la mancanza.
La saluto e resto in attesa di un suo riscontro.
Fabio D'Andrea
lunedì 1 ottobre 2012
Alla corsara 7 - Del populismo
Per quanto l'espressione mi intenerisca e rattristi - dato che ricorda tempi in cui dialogo e discussione avevano e davano senso - a volte è adatta: ferve il dibattito, sulla stampa e in tv, sul tema del populismo, con la partecipazione di grandi nomi. Per mettersene al corrente è utile il bell'articolo di Gigi Riva che trovate qui, dove il giornalista fa un'ampia panoramica di autori e posizioni. E parlando dell'ultimo libro del raffinato maître-à-penser Todorov, I nemici intimi della democrazia (Garzanti 2012), ne cita un brano: «[Il populismo] È presente ogni volta che si pretende di trovare soluzioni semplici per problemi complessi, proponendo ricette miracolose all'attenzione distratta di chi non ha tempo per approfondire. Può essere sia di destra sia di sinistra, ma propone sempre soluzioni immediate che non tengono conto delle conseguenze a lungo termine. Preferisce semplificazioni e generalizzazioni, sfrutta la paura e l'insicurezza, fa appello al popolo, cortocircuitando le istituzioni. Ma la democrazia non è un'assemblea permanente né un sondaggio continuo». All'articolo di Riva fa seguito, questa settimana, un approfondimento/replica di Sofia Ventura, qui, dove la brillante autrice afferma: «L'emergere di movimenti e partiti che con una propaganda fatta di estreme semplificazioni individuano nemici (dai tecnocrati agli immigrati, dalle banche a occulti poteri transnazionali) e che, pur presentandosi alle elezioni, nei contenuti e talvolta nei comportamenti appaiono poco compatibili con i principi delle nostre democrazie, giustamente preoccupa.»
Entrambi gli autori sembrano descrivere realtà marginali e minacciose, possibilità condizionali di deriva di un sistema per altri versi sano e funzionante. È un caso lampante di gestione dell'anomalia, nei termini della filosofia della scienza di Kuhn, un modo per disinnescare conseguenze catastrofiche per un intero paradigma che nell'anomalia stessa trova la sua crisi e superamento. Qual è l'anomalia? Per quanto scrive la Ventura, la prima cosa che viene in mente è che la sua descrizione si attaglia alla perfezione alla Lega, partito che ha governato l'Italia per più di un decennio: non parliamo quindi di gruppuscoli facinorosi, ma di realtà consolidate e potenti che giustamente dovrebbero preoccuparci. Per quanto citato da Todorov, invece, la questione è ancora più delicata, perché di fatto l'autore descrive il modo di procedere dell'intera cultura occidentale da qualche secolo a questa parte. Dice Morin del paradigma di semplificazione che, «di fronte a ogni complessità concettuale, prescrive sia la riduzione, sia la disgiunzione» (I sette saperi necessari all'educazione del futuro, Milano, Cortina, 2001, p. 25) e ci ricorda (p. 24) che «il paradigma prescrive e proscrive, effettua la selezione e la determinazione della concettualizzazione e delle operazioni logiche. Designa le categorie fondamentali dell'intelligibilità e opera il controllo del loro uso. Così, gli individui conoscono, pensano e agiscono secondo i paradigmi inscritti culturalmente in loro.»
Se quelli descritti da Todorov a proposito delle famose minoranze cattive sono invece i procedimenti di attribuzione di senso della cultura occidentale, stupirsi dell'incedere del populismo è perlomeno peculiare. Come potrebbe, una cultura che predica la riduzione e la semplificazione come strada maestra per la comprensione della realtà, generare istituzioni che si conformino a questi principi? Lo stesso utilizzo del termine populismo è semplicemente apologetico, vuole stigmatizzare una piccola parte per salvare l'intero, senza riuscire a vedere - e non per malafede, ma per quello che sempre Morin chiama «accecamento paradigmatico» - che il problema è a monte, nella transizione verso nuove grammatiche di descrizione della realtà che correggano errori secolari, sulla scorta dei quali è oggi pressoché impossibile distinguere tra il populismo paventato e quella che chiamiamo democrazia.
Entrambi gli autori sembrano descrivere realtà marginali e minacciose, possibilità condizionali di deriva di un sistema per altri versi sano e funzionante. È un caso lampante di gestione dell'anomalia, nei termini della filosofia della scienza di Kuhn, un modo per disinnescare conseguenze catastrofiche per un intero paradigma che nell'anomalia stessa trova la sua crisi e superamento. Qual è l'anomalia? Per quanto scrive la Ventura, la prima cosa che viene in mente è che la sua descrizione si attaglia alla perfezione alla Lega, partito che ha governato l'Italia per più di un decennio: non parliamo quindi di gruppuscoli facinorosi, ma di realtà consolidate e potenti che giustamente dovrebbero preoccuparci. Per quanto citato da Todorov, invece, la questione è ancora più delicata, perché di fatto l'autore descrive il modo di procedere dell'intera cultura occidentale da qualche secolo a questa parte. Dice Morin del paradigma di semplificazione che, «di fronte a ogni complessità concettuale, prescrive sia la riduzione, sia la disgiunzione» (I sette saperi necessari all'educazione del futuro, Milano, Cortina, 2001, p. 25) e ci ricorda (p. 24) che «il paradigma prescrive e proscrive, effettua la selezione e la determinazione della concettualizzazione e delle operazioni logiche. Designa le categorie fondamentali dell'intelligibilità e opera il controllo del loro uso. Così, gli individui conoscono, pensano e agiscono secondo i paradigmi inscritti culturalmente in loro.»
Se quelli descritti da Todorov a proposito delle famose minoranze cattive sono invece i procedimenti di attribuzione di senso della cultura occidentale, stupirsi dell'incedere del populismo è perlomeno peculiare. Come potrebbe, una cultura che predica la riduzione e la semplificazione come strada maestra per la comprensione della realtà, generare istituzioni che si conformino a questi principi? Lo stesso utilizzo del termine populismo è semplicemente apologetico, vuole stigmatizzare una piccola parte per salvare l'intero, senza riuscire a vedere - e non per malafede, ma per quello che sempre Morin chiama «accecamento paradigmatico» - che il problema è a monte, nella transizione verso nuove grammatiche di descrizione della realtà che correggano errori secolari, sulla scorta dei quali è oggi pressoché impossibile distinguere tra il populismo paventato e quella che chiamiamo democrazia.
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sabato 29 settembre 2012
Alla corsara 6 - Parole come pietre
Ferve un vivace dibattito sulla condanna al direttore di Libero, Alessandro Sallusti, per diffamazione a mezzo stampa. O meglio, per aver consentito a pubblicare un articolo sotto pseudonimo di un manigoldo - bella la lingua alla Dumas, a volte! - contro un giudice impegnato in un caso di aborto. Il manigoldo in questione è Renato Farina, alias Betulla, sgherro dei servizi segreti deviati - cerco ancora di capire quali siano quelli retti... - radiato dall'ordine dei giornalisti e specialista dell'assemblaggio di dossier falsi, pratica che il discorso corrente denomina "macchina del fango". Per il caso si invoca la libertà di parola...
Cercando di tenere a bada la rabbia, faccio notare che si tratta di un altro esempio della ripetizione meccanica di certi modelli di pensiero e schemi di comprensione del mondo che ci sta portando a perdere gran parte del terreno che il genere umano era riuscito bene o male a coprire. La fissazione aut/aut spinge a ragionare in termini di "sempre" e "mai", non di "qualche volta". E il delirio antiregolativo che vede ogni limite come un affronto - pur portando a un proliferare canceroso di regole e regolette veramente esasperante - propende per il "sempre". La semplice e scomoda domanda che viene spontanea è: perché? Perché dovrebbe essere consentito a pennivendoli senza scrupoli di dire tutto ciò che passa loro per la testa senza conseguenze? In nome della libertà di pensiero? MA PER FAVORE! Pensare non è semplicemente scrivere parole una dopo l'altra e sarebbe il caso di cominciare a puntualizzarlo. E l'idea che tra pensiero e agire non ci siano correlazioni e quindi conseguenze e possibili sanzioni è un altro aspetto velenoso del lascito cartesiano.
Inoltre, i termini di quel dibattito risalgono a un tempo in cui esisteva l'idea di dignità e l'esprimere un giudizio difforme da quello del potere poteva portare veramente alla morte, all'esilio o alla prigionia. E chi tali giudizi formulava era pronto a farsene carico anche a prezzi altissimi. Non certo un anno e spicci, che al direttore di Libero potrebbero servire per riflettere sulla qualità umana - in generale, non soltanto del giornalista, anche se questo ha armi ben diverse dal cittadino privo di accesso ai media - quando non costituissero con ogni probabilità la base di libri e memorie altrettanto falsi e tendenziosi con le quali l'essere in questione si potrebbe far ricco. Già immagino l'editore... Come spesso accade, mantenere le facciate e cambiare i contenuti è comodo, soprattutto per chi ha un'inesistente dimensione etico-morale. Sulla scorta di una sacrosanta conquista, sacrosanta in un tempo e in un luogo, un altro tempo e un altro luogo, tristemente diversi, rivendicano il diritto a comportamenti che quell'altro tempo avrebbe punito con vigore e sdegno. E svuotano lo strumento della parola, uno dei più raffinati e complessi tra quelli a nostra disposizione, di qualunque efficacia. La logica dell'annuncio a vuoto, la smentita contro ogni evidenza, l'arroganza maniacale di buona parte della classe politica vengono da qui, dall'incapacità all'autocritica e alla revisione di un'intera cultura. Che in nome di un simulacro è disposta a difendere l'indifendibile piuttosto che immaginare limiti e punizioni per chi quel simulacro svilisce con l'opera quotidiana.
Cercando di tenere a bada la rabbia, faccio notare che si tratta di un altro esempio della ripetizione meccanica di certi modelli di pensiero e schemi di comprensione del mondo che ci sta portando a perdere gran parte del terreno che il genere umano era riuscito bene o male a coprire. La fissazione aut/aut spinge a ragionare in termini di "sempre" e "mai", non di "qualche volta". E il delirio antiregolativo che vede ogni limite come un affronto - pur portando a un proliferare canceroso di regole e regolette veramente esasperante - propende per il "sempre". La semplice e scomoda domanda che viene spontanea è: perché? Perché dovrebbe essere consentito a pennivendoli senza scrupoli di dire tutto ciò che passa loro per la testa senza conseguenze? In nome della libertà di pensiero? MA PER FAVORE! Pensare non è semplicemente scrivere parole una dopo l'altra e sarebbe il caso di cominciare a puntualizzarlo. E l'idea che tra pensiero e agire non ci siano correlazioni e quindi conseguenze e possibili sanzioni è un altro aspetto velenoso del lascito cartesiano.
Inoltre, i termini di quel dibattito risalgono a un tempo in cui esisteva l'idea di dignità e l'esprimere un giudizio difforme da quello del potere poteva portare veramente alla morte, all'esilio o alla prigionia. E chi tali giudizi formulava era pronto a farsene carico anche a prezzi altissimi. Non certo un anno e spicci, che al direttore di Libero potrebbero servire per riflettere sulla qualità umana - in generale, non soltanto del giornalista, anche se questo ha armi ben diverse dal cittadino privo di accesso ai media - quando non costituissero con ogni probabilità la base di libri e memorie altrettanto falsi e tendenziosi con le quali l'essere in questione si potrebbe far ricco. Già immagino l'editore... Come spesso accade, mantenere le facciate e cambiare i contenuti è comodo, soprattutto per chi ha un'inesistente dimensione etico-morale. Sulla scorta di una sacrosanta conquista, sacrosanta in un tempo e in un luogo, un altro tempo e un altro luogo, tristemente diversi, rivendicano il diritto a comportamenti che quell'altro tempo avrebbe punito con vigore e sdegno. E svuotano lo strumento della parola, uno dei più raffinati e complessi tra quelli a nostra disposizione, di qualunque efficacia. La logica dell'annuncio a vuoto, la smentita contro ogni evidenza, l'arroganza maniacale di buona parte della classe politica vengono da qui, dall'incapacità all'autocritica e alla revisione di un'intera cultura. Che in nome di un simulacro è disposta a difendere l'indifendibile piuttosto che immaginare limiti e punizioni per chi quel simulacro svilisce con l'opera quotidiana.
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