sabato 6 gennaio 2007

Parole e parole

Stavo leggendo, sull'ultimo Espresso dell'anno, un'intervista con David Grossman (#52, pp. 44-47), uno dei maggiori scrittori israeliani contemporanei, il cui argomento principale sembra essere l'idea di perdono. Al di là dello scempio che ne viene fatto negli ultimi tempi, perDavid Grossman cui perdonare sembra essere divenuto un obbligo a prescindere, possibilmente nella solita platea mediatica e con contorno di prefiche ispirate e prodighe in cenni di saggio assenso, leggerne nelle parole di Grossman, padre di un caduto della recente guerra libanese, ha un sapore tutto diverso e secondo me introduce al tema maggiore dell'intervista, spesso in filigrana, ma oggi assolutamente centrale. Interrogato sul ruolo odierno degli scrittori, Grossman risponde come solo un ebreo può fare: «Gli scrittori, essendo vicini alle parole, possiedono il codice per rimettere in contatto i vari strati della lingua. Occorre fare questo, per contribuire a restituire alle persone la loro vera identità». Chi è intimo di una lingua antica, sacra, concepita come strumento di creazione divina e segno di identità, lingua cresciuta su se stessa come una stalattite o un'alta quercia, senza perdere i legami profondi tra le sue ere e l'attuale, trova probabilmente più spontaneo far cenno a questo compito di chi della lingua è custode e utente esperto. È un suggerimento che va ripetuto «con voce alta e forte» - come dice spesso Chabod in un bel libro che sto leggendo in questi giorni - in un tempo in cui della stratificazione della lingua si è perso il senso e le parole sono sempre più vuote. Grandi verità vengono ripetute senza alcuna comprensione, banalizzate al punto da farne ritornelli odiosi e private del loro potere taumaturgico. Lo spreco infinito di fiato e suono che è il chiacchiericcio contemporaneo maschera e, peggio!, inibisce il dono della parola. Tutti coloro che vivono del flusso di sapere che in parole si materializza e si dà all'esperienza dovrebbero riflettere sulle brevi frasi di Grossman. Sulla relazione stretta e poco evidente tra lingua e identità, non solamente nazionale, ma essenziale, soggettiva. Riprendendo l'intuizione di Taylor sull'identità come narrazione, è difficile sottovalutare l'importanza della maestria linguistica nella definizione e rivelazione di sé. Maestria che non è solamente disponibilità terminologica o arte retorica, ma, più profondamente, coscienza della ricchezza verticale del senso, dello sciame semantico che ogni termine reca con sé e degli echi e delle corrispondenze che è capace di evocare. Questo intende Ungaretti con gli splendidi e scarni versi «Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso» (Commiato). Poca sorpresa che soggetti - ed eroi - siano sempre più rari, dove si crede che basti ripetere frasi copiate per essere brillanti e quasi nessuno è più minatore di se stesso.