domenica 4 ottobre 2009

Sul filo

Man on WireCapita di rado, ma ogni tanto ti trovi davanti a qualcosa che ribolle di idee, suggestioni, emozioni. Qualcosa che richiede che tu metta da parte la pigrizia e agisca. Anche se l'azione che ti è toccata in sorte ha una forma e un modo che sembrano contraddire quanto hai appena visto. E così faccio un piccolo sgarro alla mia prassi e, invece di scrivere di cinema su Aforismatica, ne scrivo qui. Il mio modo di fare è questo, ci ho fatto pace da un po', anche se quando mi trovo davanti a personaggi come Philippe Petit mi trovo anche in difficoltà. O meglio, per certi versi mi trovo in difficoltà, per altri sono entusiasta perché il "semplice" fatto che esistano mi rassicura, conforta le idee inattuali che mi porto dietro e che cerco di applicare al mio scrivere, studiare, insegnare. E' che il funambolo Petit - nome ironico per un uomo immenso - incarna alla perfezione la questione del daimon, della chiamata. E mostra l'insufficienza assoluta delle categorie dell'utile e dell'economico per descrivere la passione e le dinamiche di creazione del senso della vita. "Avevo appena finito di danzare sul tetto del mondo e loro mi chiedevano perché! Non c'è un perché!"
Due righe di introduzione però si impongono: il funambolo in questione ha camminato sulla fune tra le torri di Notre-Dame, tra i pilastri del ponte del porto di Sidney e, oggetto del film di cui parlo, tra le Torri Gemelle. Tutte cosette illegali, l'ultima quasi inimmaginabile. Il docu-film narra della sua vita, dell'incredibile piano per riuscire nell'impresa e dell'impresa. E' la storia di un progetto asservito a un non-scopo, di un progetto inutile, ma laborioso, stancante, pericoloso. E' la storia di un'impresa di quelle di cui sono pieni miti e leggende, non il nostro tempo, e questo è più che sufficiente per dare una dimensione emblematica al protagonista. Non parliamo poi del prezzo da pagare, a una simile ossessione. Affetti, storie d'amore, fine dei sogni. L'eroe è solo e di norma sacrifica al suo demone ciò che ha di più caro, perfino se stesso. Perché si converrà che danzare su una fune tesa a oltre 400 metri d'altezza senza alcuna forma di assicurazione è questione sacrificale. D'altronde Galahad della Tavola Rotonda deve superare il ponte della Spada durante le sue avventure, un ponte che corre sul filo di un'immensa lama, più o meno come una fune... Una fune che chiama, che è essenza di sentiero ed ebbrezza di volo. Il funambolo è sospeso tra aria e terra, è colui che porta il richiamo del cammino alla torsione estrema e la storia di come riesce, in questo caso particolare, sfida chiunque a discutere l'idea di destino e di vocazione. Dal chiodo che gli ferisce un piede dandogli l'idea per superare i controlli d'accesso all'incontro con un dirigente con gli uffici nelle Torri che l'aveva visto a Parigi ed è disposto a fargli da infiltrato nei sistemi di sicurezza è tutto un succedersi di eventi magici, un percorso dovuto, obbligato. La bellezza del gesto, poi, rimette in prospettiva la questione della performance artistica, che ridiventa gesto arduo compiuto con naturalezza e apparente semplicità grazie a un lungo lavoro ed esercizio. Non semplice sghiribizzo estemporaneo o sciarada spaziale e intellettuale.
C'è poi la dimensione di documentario e la tinta particolare che viene dall'oggetto del sogno del piccolo Philippe: le Torri ancora non costruite. E le immagini ripercorrono la nascita dei grattacieli, mostrano quello che è oggi il buco nero di Ground Zero allo stato seminale, quando si gettarono le fondamenta. Ed è poesia pura. L'intera parabola degli edifici culmina nella danza del funambolo, quasi come fossero state costruite apposta. Il che è un buon punto di partenza per discutere l'affermazione positivista che le cose hanno un senso in sé. Chi avrebbe mai immaginato che tanto lavoro, tante risorse e competenze servissero in fondo a nient'altro che a offrire sollievo a un demone che ruggiva già da bambino? A regalare al mondo un attimo senza tempo di stupore?
Philippe Petit si gode il paradiso

lunedì 27 aprile 2009

Il Corpo 2.0: una metaconferenza

Ieri sera il club Brain 2 Brain di Mario Esposito ha organizzato in Second Life, presso il Pyramid Café a Vulcano, un incontro denso di sociologi su un tema secondo me centrale, di questi tempi: il corpo 2.0 per l'appunto, un intreccio di corporeità, sistemi simbolici, simulacri e altre intimazioni trasversali. Debora Viviani, Valentina Grassi e il sottoscritto hanno presentato brevemente i loro ultimi lavori sull'argomento e si sono poi intrattenuti a lungo con un pubblico attento e partecipativo (molto più facile da trovare in Second Life che nella real life, si direbbe) fino alle ore piccole. Mario è stato incredibilmente performante e quindi ho il piacere di proporvi il video della serata. Lo pubblico qui su Ciottoli, perché penso che anche questo sia uno dei futuri canali attraverso cui passeranno (già passano d'altronde!) la cultura, la formazione, il sapere.




Il Corpo 2.0 from MarioEs on Vimeo.

venerdì 24 aprile 2009

Buone pratiche e responsabilità diffusa

Su un recente Espresso (14/2009, pp. 156-159) c'è un articolo di un certo interesse - che trovate qui - sulle aziende italiane che valorizzano i dipendenti non solo a parole, ma anche nei fatti. Ci si trovano svariate cose sulle quali vale la pena riflettere, nel bene e nel male. Ad esempio, unoFailure degli estensori del rapporto Top Employers Italy 2009, di cui l'articolo dà conto, afferma: «Le aziende dovranno investire nei giovani talenti che si affacciano sul mercato del lavoro, dando loro autonomia e incoraggiandoli a prendere decisioni, assumersi responsabilità, promuovere iniziative.» Considerazione ineccepibile, se non fosse che non si capisce perché questo compito dovrebbero assumerselo solo le aziende, mentre le altre istituzioni coinvolte nel processo di socializzazione - agenzie, per chi ama i tecnicismi - ne rifuggono come dalla peste. Mancando nella vita l'effetto Hollywood - quello del lieto fine - dare autonomia e stimolare la presa di responsabilità implica la capacità di essere d'esempio a simili prassi, spesso trovarsi in situazioni scomode o sgradevoli in cui si deve dire no, correggere comportamenti inadeguati, constatare fallimenti. Una cosa di cui non c'è traccia nell'articolo, né nella retorica diffusa di cui è un ottimo specchio, è il comportamento di fronte al fallimento, analizzato con grande acume da Sennett nel suo splendido L'uomo flessibile. Trattazione che si occupa di un altro caposaldo delle buone pratiche narrate in Aziende da sogno, l'idea pseudo-libertaria di responsabilità diffusa, per cui nessuno è in grado di dare ordini perché si è tutti uguali e la spinta a far meglio nasce dal Human Resourcesgruppo e dal proprio senso del dovere. Apparentemente un'ottima idea, se non fosse che in ultima analisi cancella quell'idea di responsabilità di cui si parlava prima, facendo sì che di fatto un potere continui a esercitarsi (di nuovo nel bene e nel male, visto che attualmente sembra che i manager siano diventati i capri espiatori di tutto come può leggersi qui) senza però che in linea di massima se ne sopporti il peso. Bourdieu parlerebbe di habitus, Freud di Super-Io o di sua furba strumentalizzazione: i punti di vista abbondano. Sennett è più orientato a pensare a strategie di dominio che hanno però la controindicazione di svuotare vita e persone di senso e spessore, producendo quell'uomo postmoderno proteiforme e leggero tanto amato da Maffesoli, che spesso ne perde di vista lo smarrimento e il sospetto corrosivo di inutilità esistenziale.
L'altra questione in filigrana - posto che va comunque benissimo che qualcuno abbia forse raggiunto una visione integrata della Scuola delle Relazioni Umane - è: siamo proprio così sicuri che ci sia questa gran voglia di assumersi responsabilità, promuovere iniziative ed essere autonomi? Per quanto mi dolga dirlo, a me non pare...

sabato 10 gennaio 2009

Approssimazione

Un po' per curiosità, un po' per capirne qualcosa di più, sto dando uno sguardo ai siti di social networking in chiave business. Qualche giorno fa gironzolavo su Monster e ho dato un'occhiata ai consigli per redigere un curriculum che colpisca. O meglio sulle cose da evitare perché un CV non finisca direttamente nel cestino. Una di queste ha a che fare con la cura formale nella stesura dei due fatidici fogli A4. Dicono, gli esperti del sito, che siccome chi fa la prima selezione dedica circa 20 secondi a ogni candidato uno dei criteri che utilizza più di frequente è vedere chi fa erroriCarelessness di battitura o grammaticali per liberarsene a tutta velocità. Il che mi ha fatto sorridere. Si dà il caso che i miei laureandi possano trovare familiari queste parole, vista l'attenzione colorata che dedico alle decine di refusi che costellano le loro pagine, dei quali sembrano incapaci di valutare la portata e le implicazioni. Anzi, sono quasi convinto che la gran parte dei lettori avrà a questo punto sbuffato e indirizzato pensieri poco lusinghieri ai professionisti del personale che adottano strategie tanto semplicistiche Eppure, eppure... Oggi la velocità è tutto, mi si dice quando argomento sull'importanza di dettagli apparentemente insignificanti; cosa vuoi che conti una svista, l'essenziale è che si capisca quel che si intendeva. Simmel sosteneva però che dalla superficie si può giungere in profondità attraverso qualunque frammento e un occhio allenato da un dettaglio può risalire, riscendere, intuire molte cose. Chi sceglie futuri candidati ritiene che quel particolare aspetto sia rivelatore. E in effetti, se pensiamo all'importanza maniacale che il CV oggi riveste in campo lavorativo, è abbastanza facile seguire il ragionamento: se qualcuno non è in grado di scrivere due semplici pagine (oltretutto ricche di spazi bianchi) che potrebbero modificare il suo futuro senza evitare errori, non è il caso che sprechi il mio tempo a contattarlo perché già so come sarebbe la sua performance... Molti di quelli che alzano gli occhi al cielo quando dico che rileggo e correggo anche le mail e gli sms a questo punto mi direbbero che, certo!, una cosa è una mail, una cosa un documento ufficiale o comunque importante e potrebbero perfino ricredersi sulle basi empiriche del comportamento di chi sceglie futuri collaboratori su questioni di apparente lana caprina. Eppure bis... L'attenzione fa strani scherzi e l'uomo spesso si sopravvaluta: non porre alcuna cura in certi contesti - la maggior parte, temo - rende sempre più difficile comportarsi altrimenti in altre situazioni. Di più, rende insensibili all'argomento, incapaci di apprezzare la qualità di ciò che si sta facendo. Nel campo particolare in discorso, come ben sa chiunque si occupi di correzione di bozze, la cura poi non è mai sufficiente, tant'è vero che un altro, saggio, consiglio è far rivedere comunque il proprio CV a qualcun altro, perché quattro, sei, otto occhi vedono mooolto meglio di due. Una cosa tuttavia è un errore, altra cosa è un'abbondanza di refusi che spesso diventa fastidiosa.Detail
Certo, è paradossale che esponenti di un sistema eminentemente quantitativo si basino, per le loro strategie, su modi di fare relativi a tutt'altro ordine di cose. Sì, perché di fatto ciò di cui stiamo discutendo è l'ennesima forma del dilemma quantità/qualità. E se oggi l'accusa di pedanteria è tanto facile verso chi predica a favore dello "spreco" di tempo rappresentato da un'ennesima rilettura o dalla digitazione necessaria a una correzione, è anche in larga misura grazie agli ideali propugnati da anni proprio da coloro che poi quello spreco di tempo gradirebbero vederlo applicato ai documenti che li riguardano. Situazioni assurde molto comuni nel teatro della quotidianità del XXI secolo, dove vecchie intimazioni di antico buon senso si intrecciano con spigliatezza a comportamenti che sulla loro base andrebbero censurati: dico, ha senso scegliere un candidato - anche senza refusi - dedicando 20 secondi all'esame della sua storia, per di più racchiusa obbligatoriamente in due striminzite cartelle? Pare che la coerenza, insieme al gusto sottile del far bene, non abiti più questo tempo.