mercoledì 12 dicembre 2007

Economia ed etica?

Sono abbastanza soddisfatto di questo blog, anche se ha dei problemi: qualcuno strutturale, qualcuno relazionale, credo Ha un ritmo del tutto inadeguato al web, i post sono di norma troppo lunghi e probabilmente scritti con un tono che non invita al dialogo... E fin qui il mea culpa. E' anche vero, perlomeno credo e spero, che molti dei visitatori non hanno con me un rapporto esclusivamente informatico, ma capitano qui perché incuriositi da qualcosa che ho detto a lezione, perché cercano qualcosa di diverso dal solito, che possa solleticarli in un modo o nell'altro. Mi piacerebbe che dicessero la loro!!! Mi piacerebbe spingerli a scrivere un appunto, un'osservazione, un commento Allora ho pensato di passare all'esortazione diretta. Col post precedente - dedicato a Danilo Coppola - eLuigi Zingales questo, inauguro una serie di stimoli diretti. Materiali quasi grezzi, adatti a un'esercitazione d'aula come a un momento di riflessione, causato dallo studio o da un sussulto di attività cerebrale autonoma.
Oggi parliamo dei difficili rapporti tra etica ed economia, oggi in cima all'agenda dei media e della cogitazione intellettuale. Credo che un recente articolo di Luigi Zingales su "L'espresso" (49/2007, p. 19) aiuti a capire quanto la questione sia "assurda", perlomeno se si continua a usare il termine "economia" con le sue legittime prerogative teorico-pratiche, senza infingimenti: "Senza una punizione pecuniaria non esiste per le imprese l'incentivo a modificare atteggiamenti lesivi dei consumatori [...]. Questo sistema di responsabilità civile è un pilastro essenziale di un buon sistema di mercato. Senza di esso, il perseguimento del profitto spinge le imprese a ignorare i rischi dei consumatori. Lo vediamo nei prodotti per bambini [...]: siccome negli Stati Uniti i bambini valgono poco in termini di risarcimento economico (sono un costo, non una fonte di reddito), le imprese non ritengono economicamente vantaggioso investire in migliori standard di sicurezza".
Apprezzo molto che qualcuno formuli limpidamente concetti del genere, anche se una parte di me ha voglia di mettersi a urlare. Credo sia sano che venga loro data la maggior diffusione possibile, in modo da sgombrare il campo dalla melassa ideologica con la quale si ha a che fare di solito.
E ora gradirei sentire qualche parere. Possibilmente qui, in forma di commento o, per i più intraprendenti, iscrivendosi a Splinder e chiedendomi di diventare coautori o facendosi addirittura il proprio blog inattuale. Chissà...

Giocattoli

giovedì 6 dicembre 2007

Questione di fiducia

Post in stile Aforismatica, proprio al volo. Molti non capiscono il ruolo della fiducia nella società contemporanea. Ora, date un'occhiata a questo volto:Danilo Coppola
gli affidereste mai cinquanta lire - o venti centesimi, a scialare col cambio? Eppure fior di banche lo hanno fatto, tanto da trasformarlo per qualche tempo in un corsaro della finanza, prima che si rivelasse come "furbetto del quartierino" e poi come patetico maneggione... So che si può pensare che la crème de la crème delle banche avesse i suoi motivi; anzi è sicuro. Il problema è che in linea di massima ci si fida delle banche e quindi, per la famosa proprietà transitiva... Per non parlare poi di quelli che gli hanno affidato i loro risparmi di persona, vedendolo. Il fascino del ruolo, in questa società, soprattutto se ha a che fare col misterioso e affascinante mondo della finanza, espropria di fatto ogni traccia di buonsenso.

mercoledì 31 ottobre 2007

Di nuovo House

Hugh Laurie aka Gregory House
E' notte e in tv c'è uno speciale di Matrix sul dottor House. Abbiamo esperti assortiti, produttori e un giovane filosofo che con alcuni colleghi ha pubblicato un lavoro su La filosofia del dottor House. Come dicevo tempo fa, per un semplice serial sembra in grado di proporre molti spunti! Al di là del fatto che da più parti ci si sta accorgendo che di "semplice" alcuni serial non hanno proprio niente - tanto da essere paragonati al romanzo per la capacità descrittiva del reale proprio di questo torno di tempo - quello che mi colpisce della trasmissione è ancora una volta l'abilità di girare intorno agli argomenti senza coglierne aspetti centrali se non di sponda. Una delle poche osservazioni interessanti ha come spunto di partenza una domanda di Mentana sul perché negli USA i serial di ispirazione ospedaliera vanno fortissimo accanto a quelli investigativi, mentre in Italia funzionano solo i secondi: il giovane filosofo risponde opportunamente ricordando l'immenso problema costituito dalla sanità per la stragrande maggioranza degli americani. Risposta che si potrebbe integrare con altri corollari: il grande problema che è oggi in Italia la sicurezza e il fatto che nonostante gli alti lai noi evidentemente ci rappresentiamo la sanità molto meglio di quanto non sembri. Questa scala di ragionamento va bene anche per la questione generale del perché i serial medici sono comunque così gettonati: Regazzoni richiama il tema della vita e della morte e della fragilità della prima, senza però accentuare il peculiare aspetto problematico che sta assumendo, legato all'ossessione per la fine della vita - cui non fa più da contraltare una qualche soteriologia - e alla carica immaginale irresistibile che si sedimenta per contro sulla medicina intesa come nuova fede, cioè nuova strategia di salvezza e metodo per conquistare questa stessa salvezza nella quotidianità, sconfiggendo l'azione del tempo, il decadimento e la consunzione.
Un'altra cosa che non è venuta fuori che per caso - e solo per intenditori - è l'estrema eterodossia del personaggio, incarnata nelle molte mail di protesta dirette da pazienti e medici italiani all'inserto Salute del Corriere della Sera. Eterodossia che anzi quasi tutti si sono sforzati di far rientrare in schemi consolatori come l'eroe burbero ma buono, il medico appena meno canonico del solito, etc. Come già scrivevo tempo fa, invece, per quanto possa sembrare controfattuale, il fascino del "buon" Gregory non è tanto nel giocare al di fuori delle regole - comportamento dopotutto non particolarmente originale - ma nell'incarnare una medicina completamente diversa da quella odierna, sempre più dipendente da analisi tecnologiche ed apparecchiature esoteriche e arroccata in una pretesa di infallibilità dai costi logistici ed esistenziali costantemente in crescita. Per lui la medicina è arte, intuizione, soprattutto incertezza. Unite a una sana dose di scetticismo sulle capacità miracolose di esami e altre diavolerie. House è la ragione com'era prima del mito del Progresso, versatile e capace di errore. Ma è anche altro. E quest'altro è ancora meno digeribile dal discorso culturale prevalente, che infatti si limita a sfruttarne il fascino senza però indagare troppo in proposito: House è l'individuo di talento, il genio, che si fida delle sue fulminazioni contro l'evidenza documentale e usa della sua certezza per sé e per gli altri, mettendosi ogni volta interamente a rischio. E' il contrario dell'omologazione statistica, del canone ormai inflazionato del lavoro di squadra - tant'è vero, come si notava in trasmissione, che è solo, usa il suo team come specchio, uditorio quasi del tutto privo di capacità d'azione - è un essere inattuale scaturito da un passato dove la fede nel soggetto era ben più viva di quanto non sia oggi, sebbene il soggetto stesso, poco democraticamente, non potesse essere chiunque, ma solo chi avesse il dono.
House è così seguito e ha tanto successo perché incarna una nostalgia indicibile - perché radicalmente fuori dagli schemi correnti - per un uomo capace di far fronte al destino pur sapendo di essere fallibile, capace di fregarsene dei canoni in un'epoca in cui essi sono sempre più norma soffocante e obbligo di comportamento. House, direbbe probabilmente Simmel, è un soggetto in piena forma nonostante il suo tempo.

giovedì 23 agosto 2007

Solidarietà a Roberto Saviano

Abbandono per una volta la mission di questo blog per quello che mi sembra un atto dovuto. Ho già segnalato la mia stima per gli scritti di Roberto Saviano, sapendo che il genere di coraggio civile che sta mostrando avrebbe avuto gravi ripercussioni. Delle quali era con tutta evidenza ben conscio se, qualche tempo dopo la comparsa di Gomorra, scriveva di Anna Politkovskaja che sembra che nel mondo attuale solo la morte metta al riparo lo scrittore da ingiurie e calunnie... Leggo oggi che, prevedibilmente, la camorra ha emesso una fatwa - incredibile come ci si abitui all'uso di parole fino a pochi anni fa ignote e tutt'ora spesso incomprensibili, incredibile come roghi e censure tornino brutalmente alla ribalta - nei suoi confronti e sa aspettare. Leggo di vicini che lo vogliono allontanare dal condominio perché infastiditi dall'andirivieni della scorta. Di altri che vogliono allontanare persino i suoi parenti. E non posso non vergognarmi di questa ipocrisia dilagante - la stessa che addita i boss come radice del problema della cocaina senza chiedersi nulla sull'aumento esponenziale del consumo, come se qualcuno obbligasse i passanti a sniffare sotto pena di morte - e reagire, con i mezzi terribilmente inadeguati che il Web mi mette a disposizione. Siccome condivido la passione e la fede di Saviano nelle parole, invito chiunque passi di qui a leggere, se non il libro, almeno gli articoli che pubblica periodicamente sull'Espresso e dei quali può trovare l'elenco aggiornato seguendo questo link. Con la speranza che possa continuare a farlo a lungo.

lunedì 25 giugno 2007

Why me?

Riprendo il filo delle ultime annotazioni - qui sotto, il link non serve  - sulla scorta della visione del nuovo episodio dei Fantastici 4, per l'occasione accanto a Silver Surfer. E introduco questa nuova puntata con un tormentone che gli affezionati del fantasy conoscono bene: quello che accompagna tutta la prima trilogia di David Eddings, ilBelgarion Belgariad. Che, detto per inciso, ho sempre trovato di grande aiuto nei momenti in cui la fuga e il cambio d'aria mentale si imponevano. Il povero Garion, cresciuto per tutta la vita convinto di essere semplicemente una nullità, si trova erede di un trono e unico eroe in grado di salvare, tanto per cambiare, il mondo. E non fa che chiedersi, forse anche con troppa frequenza, "perché io?". E' un ritornello che ultimamente mi torna in mente piuttosto di frequente: in ultima analisi tutte le stagioni di Smallville - l'infanzia di Superman - risuonano dello stesso lamento sconsolato; l'Uomo Ragno si chiede spesso la stessa cosa e oggi anche Mr Fantastic e la Donna Invisibile si scoprono accorati dalla disgrazia toccata loro di questi superpoteri così ingombranti da impedire una vita normale... Che devo dire, mi sembra tanto strano! Al di là della chiarezza concettuale di chi scrive le storie, questa densità di insoddisfazione verso un'evidente unicità urta frontalmente con la retorica che invece è sempre più ingombrante nel discorso mediatico, quella del "se non sei unico, non sei!" e che costituisce l'essenza della cultura attuale. Dev'esserci, da qualche parte, la fregatura! In altre parole, come mai il supereroe - che dovrebbe essere l'ennesima potenza dell'ormai superato eroe, che è unico per antonomasia e costituisce perciò il modello della tanto strombazzata originalità contemporanea - ambisce a essere normale, quando tutti i normali del mondo vorrebbero essere come lui? I due sposi fantasticiHo una mezza teoria in proposito, che usa un po' di Durand e un po' di Dumont e drammatizza questi avvenimenti, restituendo loro un po' d'incanto: nella fiction, non solo fantasy romanzesca, ma anche cinematografica e fumettistica, cioè nel mondo dell'immaginario, lo scontro tra regime diurno e regime notturno si sta combattendo, come è giusto, senza esclusione di colpi. Se da una parte a volte l'immaginario ne mette a segno di magistrali, come ad esempio 300, dall'altra lo scontro è sovente in bilico e il risultato è un tessuto immaginale contraddittoriale, con slanci di ampio respiro e ricadute nel prosaico ed utilitarista da brivido. A parte gli appunti sull'opera di Martin (sempre qui sotto), gli esempi portati finora sono piuttosto calzanti e a mio parere efficaci: prendiamo le tute dei Fantastic 4 zeppe dei logo dei vari sponsor o le citazioni per danni relative alle loro gesta - cosa già vista, con altro accento, ne Gli incredibili, che è una favola sulla sopravvivenza dell'incanto nonostante l'economicismo. L'immaginazione oggi sembra spaventata da se stessa, si sta autocensurando e ha bisogno di giustificare i suoi voli, dar loro un'apparenza scientifica o sottometterli comunque alle "rassicuranti" leggi del mercato. A tratti. A tratti, in certi autori, se ne frega bellamente: a parte i lavori grafici di Frank Miller e Neil Gaiman e le loro riduzioni cinematografiche, penso all'appena visto Le avventure del barone di Munchausen, dove il barone è proprio l'incarnazione dell'autofondazione dell'immaginario e della futilità di ogni sua riduzione a qualcos'altro. Il problema è che i fantasmi contro cui la volontà riduttiva si batte sono seri e sono da sempre spauracchi della nostra cultura. Alla radice del famoso "why me?", infatti, a ben vedere, non c'è altro che il rifiuto della vocazione, la sensazione di veder limitate le proprie possibilità esistenziali e quindi di non esser liberi di scegliere. E questa libertà di scelta è uno degli idoli più significativi del nostro tempo. Non è un caso che il cattivo dei Fab FourJames Hillman della Marvel si chiami dottor Destino, perché il punto dolente è proprio questo: il (super) eroe non è libero, come non è libero - a meno di non rifarsi saggiamente, come insegna Hillman, al mito di Er - chiunque segua il suo demone. Ecco che le vie della fiction hollywoodiana mi riportano a una delle mie passioni scientifiche: la Bildung e lo strano uso che ne stiamo facendo, del quale a dire il vero molti non hanno alcuna idea Siamo costantemente in equilibrio - nel migliore dei casi - tra il richiamo della rassicurante routine quotidiana e l'anelito verso l'unicità che custodiamo in noi e di cui il DNA può esser letto come l'ennesima riduzione, anelito che però ci spaventa, perché ci ricorda ora e sempre che gli eroi pagano un prezzo piuttosto alto per la fama. Dev'essere questa la ragione per cui  tempo fa Fish scriveva "Heroes don't come easy". L'attuale pletora di splendidi riluttanti non può non far apprezzare per converso Leonida e la piena coscienza con cui si immola alla forza del mito.

mercoledì 6 giugno 2007

Qualche idea sul fantasy

Si fa presto a dire fantasy, soprattutto in Italia, dove il termine "fantasia" soffre di inossidabili preconcetti e sta riemergendo dal dimenticatoio attraverso la cooptazione interessata dell'economia, che l'ha trasformata in creatività mirata alla produzione di nuove merci. Non che questo accada solo da noi, ma qui siamo vittime di una spocchia particolare per cui tutto ciòGhiaccio bollente che non è contemplazione verbosa del proprio ombelico viene visto come letteratura di serie B, indegna dell'attenzione adulta dei lettori. Specie, peraltro, in via d'estinzione, ma questa è un'altra faccenda. Ad ogni modo, il lettore "forte", in Italia, ritiene in linea di massima di non sprecare il proprio tempo con argomenti per l'appunto fantasiosi, guardando Il Signore degli Anelli come un momento di istupidimento collettivo e tralasciando ogni contatto con altri universi che nel frattempo, in altre nazioni, prendono forma e si rivelano come fenomeni letterari degni di grande rispetto. Credo che quello che ho scritto a proposito di 300 sia piuttosto indicativo: non è comunque mia intenzione tornare adesso sulle questioni dell'immaginale e del danno che il divorzio occidentale dal suo mondo ci sta procurando. Né voglio scrivere di un'altra faccenda spinosa, ossia dell'abbandono da parte della "Sinistra" di questi temi a una strumentalizzazione da parte della "Destra", che è di suo piuttosto fiacca, ma gode del fascino ancestrale che un tale apparato simbolico-narrativo esercita di per sé su chiunque, indipendentemente dalle sue convinzioni o dai suoi pregiudizi...
Certo, lo stigma in questo senso ha radici comuni col tema sul quale volevo dilungarmi, ossia la trama della Canzone del Ghiaccio e del Fuoco di George R.R. Martin (pare che se non hai 2 R nel nome non puoi scrivereSarà Ghost? fantasy ), perché deriva secondo me dalla distinzione marxiana tra struttura e sovrastruttura, intesa nella fattispecie al quadrato. Deriva, in ultima istanza, dal pregiudizio economicistico e dal giudizio di inutilità conseguente su filoni e creazioni fondamentalmente ispirati ad altri valori, percepiti in modo oscuro come pericolosi. D'altro canto credo che proprio questa sia una delle radici più coscienti del crescente interesse per il genere che, anche in Italia, nonostante quanto detto prima, viene lentamente conquistando spazio. Ci si potrebbe chiedere cosa c'entri questo col lavoro di Martin: per chiarire la cosa, sarà il caso di dire preliminarmente qualcosa sulla Canzone. Si tratta di un'opera grandiosa, nella quale numerose trame si intrecciano a descrivere quello che gli scettici potrebbero definire l'ennesimo mondo fantasy. Il punto è che lo spessore di Westeros è del tutto atipico: la ricchezza della sua cultura, la profondità storica della ricostruzione - trattandosi di un universo medievale nel quale vigono le leggi del sangue e dell'onore, il parallelo col Medioevo storico è fondante - sono impressionanti e l'arte dell'autore nel gestire l'intera materia degna di invidia e fonte di ore di lettura ipnotica. Dov'è il problema?The Wall
Definirlo problema è forse esagerato, ma il mio grado di esasperazione verso le semplificazioni economicistiche è sempre più acuto: trovarmelo incarnato in uno dei personaggi più subdoli ed efficaci dei cinque romanzi che si sono succeduti fino ad oggi è quasi doloroso Parlo di Littlefinger, del quale non ho presente la traduzione italiana, il Mastro di Zecca del reame e colui che finora è riuscito a farsi beffe dell'intero sistema di valori tradizionale di Westeros, piegandolo ai suoi fini grazie a un'intelligenza notevole e all'uso spregiudicato del denaro e delle costrizioni che detto sistema esercita su coloro che ne fanno parte. La morale è che l'intero mondo così amorevolmente ricostruito assume sempre più, alla luce delle imprese del signore del colibrì, l'aria di una facciata vuota, di un guscio pronto al collasso. Certo, Littlefinger è una delle possibili soluzioni; ci sono anche in gioco i Draghi dell'Est e i pericoli del Nord, Daenerys e Jon Snow, cosicché l'intera saga potrebbe esser letta come uno studio in figura epica delle possibili evoluzioni della nostra cultura se la scienza non vi avesse così vigorosamente attecchito. Più che un'evoluzione materiale, direiDaenerys Targaryen un'evoluzione spirituale, mentale, dove lo spazio per il disincanto - che pure in Westeros è uno dei grandi problemi con i quali l'intera società si sta confrontando, visto lo scetticismo con cui i reami del Sud accolgono una serie di notizie cruciali - è ancora contenuto e una qualche misericordia divina si sta adoperando per frenarne l'espansione. Voglio augurarmi che, almeno in Westeros, l'economia fallisca nelle sue trame e non sostituisca la magia del tintinnio dell'oro a quella del volo incantato dei draghi.

martedì 3 aprile 2007

YouTube, MeTube... WhoTube?

Nella perenne rincorsa agli arretrati dell'Espresso, mi sono appena imbattuto in un articolo (che conto di aggiungere quanto prima all'archivio di www.sociologica.it) che offre spunti attuali per un tema antico, e probabilmente l'idea per un futuro saggio. L'articolo, come il lettore attento potrebbe sospettare , ha a che fare con il Web, in particolare con YouTube e con inediti comportamenti delle nuove generazioni in tema di privacy e riservatezza. Il tutto parte dalla constatazione che riserbo, vergogna e discrezione non fanno più parte del loro armamentario emozionale e relazionale. Che, come afferma Danah Boyd, una dei tanti guru che oggi affollano rete e media, "hanno abbattuto [le] mura [che le vecchie generazioni usavano per proteggere le zone più intime della personalità] e hanno cominciato a disperdere i loro pensieri reconditi sulla Rete e a permettere agli altri di intrufolarsi nel loro territorio mentale..." (L'espresso 8, 2007, pp. 176-177).Uroboros
Questo lo chiamerei un crocevia, dove si intrecciano discorsi sociologici e psicologici e, più latamente, esistenziali. Andando a disturbare Neumann e la sua Storia delle origini della coscienza, verrebbe quasi spontaneo un parallelo tra le mura medievali stigmatizzate dalla Boyd e il faticoso processo di costruzione del sé, tutto volto ad arginare la participation mystique uroborica e quindi proprio quella dispersione che invece la Rete sembra invitare nei suoi giovani frequentatori. E anche in quelli meno giovani, se vogliamo ricordare che la soggettività non è un fenomeno anagrafico, ma un flusso e una conquista quasi quotidiani. Cosa che sembrerebbe poter costituire un problema, se fossimo un tantino più attenti a ciò che accade (o, più spesso, non accade) dentro di noi, se quel processo di chiusura e fortificazione è il processo che ci ha permesso di diventare uomini coscienti. È vero d'altro canto che lo stesso Neumann ci segnala una difficoltà derivante dall'eccessiva accentuazione della separazione tra conscio e inconscio, dalla recisione di ogni legame dell'Io dalle sue radici emotive, caotiche e creative.
In questo senso, questa nuova tendenza la si potrebbe leggere col solito schema della corsa del pendolo: prima l'eccesso delle barricate, poi quello dell'abbattimento dei recinti...
Tutto questo sottintende però alcuni fatti dati come assodati ed aproblematici: quello che qui mi sembra più rilevante è la circostanza per cui si è comunque soggetti e queste dinamiche possono perturbare o aiutare questo nostro stato. Ed è qui, come direbbero i latini, che latet anguis in herba. Disturbando questa volta i teorici ottocenteschi (dio, Wilhelm von Humboldtquanto sono vetero ) della Bildung - e trovandosi d'accordo con loro, come mi succede - si scopre che la questione non è affatto così semplice, che il dialogo incessante tra conscio ed inconscio, tra esperienza intima di vita e rapporti col prossimo è uno dei fattori che innescano il processo virtuoso che porta alla soggettività, che senza di esso rischia di restare lettera morta, o seme che non dà frutto, tanto per disturbare anche qualcun altro... E che la posta in gioco sia proprio la soggettività lo dimostra il prosieguo dell'articolo: "La società si è trasformata in un concorso di esibizionisti", ci dice un altro esperto del settore. Ora, qual è la considerazione implicita dell'esibire? Proprio l'avere qualcosa che valga la pena di essere mostrato. Nel momento in cui ognuno si ritiene tanto interessante da valer la pena di darsi a vedere, compie un gesto di presunzione o di disperazione: o ritiene veramente di essere eccezionale, oppure bluffa e capovolge - come l'Occidente fa spessissimo - la logica delle cose, asserendo di fatto che il gesto del mostrare implica un contenuto rilevante. Cosa tutta da discutere. Nei terabyte di materiali che intasano la rete, di fatto, di interessante c'è sempre meno. C'è, di contro, la richiesta di attenzione per storie qualunque, vissute in superficie, clonate da modelli di più che dubbia significatività, che va a complicare ulteriormente - sia per i materiali che per l'esempio - la strada di quei pochi che si rendono conto che diventare qualcuno è parecchio più complicato di così. Qualcuno che somigli a noi stessi, e non a Paris Hilton.
Paris Hilton

sabato 6 gennaio 2007

Parole e parole

Stavo leggendo, sull'ultimo Espresso dell'anno, un'intervista con David Grossman (#52, pp. 44-47), uno dei maggiori scrittori israeliani contemporanei, il cui argomento principale sembra essere l'idea di perdono. Al di là dello scempio che ne viene fatto negli ultimi tempi, perDavid Grossman cui perdonare sembra essere divenuto un obbligo a prescindere, possibilmente nella solita platea mediatica e con contorno di prefiche ispirate e prodighe in cenni di saggio assenso, leggerne nelle parole di Grossman, padre di un caduto della recente guerra libanese, ha un sapore tutto diverso e secondo me introduce al tema maggiore dell'intervista, spesso in filigrana, ma oggi assolutamente centrale. Interrogato sul ruolo odierno degli scrittori, Grossman risponde come solo un ebreo può fare: «Gli scrittori, essendo vicini alle parole, possiedono il codice per rimettere in contatto i vari strati della lingua. Occorre fare questo, per contribuire a restituire alle persone la loro vera identità». Chi è intimo di una lingua antica, sacra, concepita come strumento di creazione divina e segno di identità, lingua cresciuta su se stessa come una stalattite o un'alta quercia, senza perdere i legami profondi tra le sue ere e l'attuale, trova probabilmente più spontaneo far cenno a questo compito di chi della lingua è custode e utente esperto. È un suggerimento che va ripetuto «con voce alta e forte» - come dice spesso Chabod in un bel libro che sto leggendo in questi giorni - in un tempo in cui della stratificazione della lingua si è perso il senso e le parole sono sempre più vuote. Grandi verità vengono ripetute senza alcuna comprensione, banalizzate al punto da farne ritornelli odiosi e private del loro potere taumaturgico. Lo spreco infinito di fiato e suono che è il chiacchiericcio contemporaneo maschera e, peggio!, inibisce il dono della parola. Tutti coloro che vivono del flusso di sapere che in parole si materializza e si dà all'esperienza dovrebbero riflettere sulle brevi frasi di Grossman. Sulla relazione stretta e poco evidente tra lingua e identità, non solamente nazionale, ma essenziale, soggettiva. Riprendendo l'intuizione di Taylor sull'identità come narrazione, è difficile sottovalutare l'importanza della maestria linguistica nella definizione e rivelazione di sé. Maestria che non è solamente disponibilità terminologica o arte retorica, ma, più profondamente, coscienza della ricchezza verticale del senso, dello sciame semantico che ogni termine reca con sé e degli echi e delle corrispondenze che è capace di evocare. Questo intende Ungaretti con gli splendidi e scarni versi «Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso» (Commiato). Poca sorpresa che soggetti - ed eroi - siano sempre più rari, dove si crede che basti ripetere frasi copiate per essere brillanti e quasi nessuno è più minatore di se stesso.