venerdì 24 aprile 2009

Buone pratiche e responsabilità diffusa

Su un recente Espresso (14/2009, pp. 156-159) c'è un articolo di un certo interesse - che trovate qui - sulle aziende italiane che valorizzano i dipendenti non solo a parole, ma anche nei fatti. Ci si trovano svariate cose sulle quali vale la pena riflettere, nel bene e nel male. Ad esempio, unoFailure degli estensori del rapporto Top Employers Italy 2009, di cui l'articolo dà conto, afferma: «Le aziende dovranno investire nei giovani talenti che si affacciano sul mercato del lavoro, dando loro autonomia e incoraggiandoli a prendere decisioni, assumersi responsabilità, promuovere iniziative.» Considerazione ineccepibile, se non fosse che non si capisce perché questo compito dovrebbero assumerselo solo le aziende, mentre le altre istituzioni coinvolte nel processo di socializzazione - agenzie, per chi ama i tecnicismi - ne rifuggono come dalla peste. Mancando nella vita l'effetto Hollywood - quello del lieto fine - dare autonomia e stimolare la presa di responsabilità implica la capacità di essere d'esempio a simili prassi, spesso trovarsi in situazioni scomode o sgradevoli in cui si deve dire no, correggere comportamenti inadeguati, constatare fallimenti. Una cosa di cui non c'è traccia nell'articolo, né nella retorica diffusa di cui è un ottimo specchio, è il comportamento di fronte al fallimento, analizzato con grande acume da Sennett nel suo splendido L'uomo flessibile. Trattazione che si occupa di un altro caposaldo delle buone pratiche narrate in Aziende da sogno, l'idea pseudo-libertaria di responsabilità diffusa, per cui nessuno è in grado di dare ordini perché si è tutti uguali e la spinta a far meglio nasce dal Human Resourcesgruppo e dal proprio senso del dovere. Apparentemente un'ottima idea, se non fosse che in ultima analisi cancella quell'idea di responsabilità di cui si parlava prima, facendo sì che di fatto un potere continui a esercitarsi (di nuovo nel bene e nel male, visto che attualmente sembra che i manager siano diventati i capri espiatori di tutto come può leggersi qui) senza però che in linea di massima se ne sopporti il peso. Bourdieu parlerebbe di habitus, Freud di Super-Io o di sua furba strumentalizzazione: i punti di vista abbondano. Sennett è più orientato a pensare a strategie di dominio che hanno però la controindicazione di svuotare vita e persone di senso e spessore, producendo quell'uomo postmoderno proteiforme e leggero tanto amato da Maffesoli, che spesso ne perde di vista lo smarrimento e il sospetto corrosivo di inutilità esistenziale.
L'altra questione in filigrana - posto che va comunque benissimo che qualcuno abbia forse raggiunto una visione integrata della Scuola delle Relazioni Umane - è: siamo proprio così sicuri che ci sia questa gran voglia di assumersi responsabilità, promuovere iniziative ed essere autonomi? Per quanto mi dolga dirlo, a me non pare...

4 commenti:

  1. In molte aziende - pubbliche soprattutto, ma anche private - tende a prevalere il concetto rassicurante di routine produttiva. Chi vi è inserito ha certezze e non sconta responsabilità personali: tutto è riconducibile alla procedura. Una posizione pilatesca che si contrappone con quella che lascia al lavoratore potere (di iniziativa) e quindi implica una sua responsabilità. Confesso che la seconda ipotesi è molto attraente, traducendo in un modello a rete, flessibile e meritocratico le pratiche produttive. Ma destinato, credo, a restare minoritario. La voglia di autonomia non mi pare - anche a me - ce ne sia in giro un granché...

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  2. Invito il viandante anonimo qui sopra - che ringrazio per aver collaborato al mio blog :) - a dare un'occhiata al testo di Sennett di cui parlavo. Ci sono pagine di grande interesse sia sulla routine che sulla responsabilità diffusa. Secondo me indicano che se continuiamo a scegliere opzioni aut/aut che privilegiano l'una o l'altra tout court siamo destinati a fallimenti assortiti, diversi l'uno dall'altro ma comunque fallimenti. La via sarebbe probabilmente in un saggio bilanciamento delle due tendenze e, soprattutto, in una rinuncia radicale all'ipocrisia di comodo!

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  3. Non sono anonimo, è questo maledetto splinder che mi rende tale. Sono www.plurale.net. Sul manicheismo, con me sfondi una porta aperta. Figurati, in un stagione dell'et et (senza pure scadere nel veltronismo, che in verità era "ma anche"). ;-) Sennett appena posso lo approfondisco.

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  4. Ciao Edoardo, grazie delle visite :)

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