Ho sempre visto come una delle dimensioni centrali della mia riflessione
e del mio insegnamento la messa in luce degli aspetti non ovvi della
quotidianità e l’insinuazione del dubbio che anche quelli più “scontati”
potessero di fatto non esserlo. Un tema sul quale ogni tanto si appunta
l’attenzione dei media, lo stipendio dei docenti, si presta molto bene a
esemplificare questo aspetto: è un argomento dove il peso del luogo comune e
del pregiudizio è tanto preponderante da causare contraddizioni macroscopiche a
livello programmatico, tra le quali l’opposizione tra il mantra dell’importanza
della ricerca e della formazione e il non cale assoluto nel quale vengono
tenuti gli operatori che dovrebbero occuparsene.
Il problema è quello dell’immagine dell’insegnante e della brutale
scorciatoia economica che permetterebbe, almeno in parte, di sanarlo. Vediamo
più da vicino quest’immagine. L’insegnante, anche per motivi storici di
selezione in Italia, è quasi sempre donna e spesso di mezza età, è vista come
colei che discorre più o meno sensatamente con la sua classe per qualche ora al
mattino (3,5 se non erro) per poi dedicarsi, nel resto del tempo, ad attività
prossime a quelle delle casalinghe – altro terreno sul quale una seria proposta
politica alternativa sarebbe ben più che auspicabile, dopo una profonda
revisione di stereotipi e pregiudizi. Gode di più di due mesi di ferie e,
essendo titolare del secondo stipendio di casa, non si vede cos’abbia da
lamentarsi. Già a questo punto, però, ci troviamo davanti a un aspetto della
contraddizione di cui parlavo prima: può essere che un processo cardine
dell’assetto del tessuto sociale come il processo di socializzazione – di cui
la scuola è agenzia fondamentale – sia affidato a questo universo di zie
benevole? E che possa esser messo in atto con tanta
nonchalance, con tre ore e mezza al giorno? Mi pare un contrasto
stridente, sul quale occorre ragionare cercando di sottrarsi all’influsso
dell’etichetta e di “incarnare” l’importanza astratta che si attribuisce
all’attività nella prassi di vita dei suoi specialisti, perché a tutti gli
effetti il processo sono loro.
È concetto comune, tra gli addetti ai lavori, che un’ora di lezione debba
essere moltiplicata per tre in termini di impegno lavorativo, per il tempo che
occorre a prepararla e per le attività didattiche connesse (correzione compiti,
progettazione esercitazioni, etc.); a questo si dovrebbero poi sommare la
miriade di impegni burocratico-organizzativi che un’istituzione tutt’altro che
moderna impone costantemente e con tendenza all’aumento, come consigli di ogni
genere, redazione di piani, rapporti e giudizi; il rapporto con i genitori, che
grazie all’immagine di cui stiamo discorrendo è sempre più difficile;
l’interrogativo perenne dei casi difficili presenti in classe, la domanda sul
comeriuscire a catturare l’attenzione
degli allievi in circostanze sempre più complesse… Questo pertiene al ruolo
insegnante, questa è la vita prevista di chi sceglie uno dei mestieri più
difficili e importanti per noi tutti, non tre ore al giorno di chiacchiere.
Questo però – e qui il problema si diversifica – è ciò che non si vede,
un’attività che non genera prodotti e che spesso può apprezzarsi, in coloro che
ne sono oggetto, dopo anni. Entra in gioco un altro aspetto dell’ideologia col
quale fare i conti: il lavoro è quello che produce cose, oggetti, merci, quello
che è quantificabile e immediatamente constatabile. Il nocciolo della visione
aziendalista che trova troppo ascolto anche nell’attuale sinistra. Visione del
mondo che trova nelle professioni intellettuali un grosso ostacolo, perché è
difficile stimare l’importanza di un’ora di lezione o di una pagina, di una
riflessione e soprattutto la sua capacità di generare reddito: tanto vale, in
linea di massima, considerarle tutte ciarle prive di senso e trattare di
conseguenza quelli che se ne occupano. Questo discorso deriva da una
semplificazione brutale in cui la qualità è ridotta a quantità e dove il valore
dell’innovazione e dell’informazione – parole chiave dell’epoca – viene ridotto
a un miope conto profitti e perdite di brevissimo periodo. Aggiungerei anche
questa alle riflessioni sulla sinistra: sinistra dovrebbe essere anche
liberarsi dall’unico metro di giudizio della produttività immediata, dalla
riduzione di ogni cosa all’ottica economica, di cui espressioni come “capitale
umano” sono una sottile e pervasiva manifestazione. L’umano è molto più di una
qualunque forma di capitale, è autonomia di pensiero, solidarietà, spessore
etico, accanto, insieme, alla capacità performativa che è invece il solo
criterio correntemente accettato. E tutte queste dimensioni sono la posta in
gioco dell’operato della scuola.
Mi sembra già di sentire: “Ma come, sei contro l’economicismo e parli
dell’importanza dello stipendio degli insegnanti? Dovresti concentrarti su cose
diverse, simboliche, meno pacchiane…” Per carità, amerei poterlo fare, come
amerei vivere in un altro mondo. Il problema è che il mondo a disposizione è
questo e anche la cultura che lo muove. Se vogliamo realmente iniziare a modificare
lo stato delle cose, dovremo operare radicalmente su quella cultura, usando i
suoi strumenti in modo diverso, creativo, innovativo, per esporne le
contraddizioni e generare un corto circuito che apra le finestre e faccia
entrare aria nuova. Quando si riconosce a una professione svalutata una stima
monetaria (un valore simbolico, perché il denaro è anche e forse soprattutto
agente simbolico!) incongruente al riconoscimento generale non può non
scaturire l’interrogativo: perché quei nullafacenti si trovano d’un tratto
tutti quei soldi? Forse non sono nullafacenti, forse c’è qualcos’altro in ballo
che non le tre ore al giorno… Tony Blair non ha fatto altro quando ha rivisto radicalmente
gli stipendi e incoraggiato professionisti di altri settori a passare all’insegnamento:
ha dato loro visibilità e stima sociale e una retribuzione adeguata per cercare
di arginare la catastrofe educativa che minaccia il Regno Unito. È chiaro che
questo passo si inserisce in un progetto generale di rinnovamento
dell’insegnamento: potenziamento delle strutture, campagne comunicative,
messaggi istituzionali coerenti, misure economiche d’impatto e poi,
necessariamente, misure volte a far sì che la minoranza malfacente si adegui a
uno standard minimo o trovi un altro impiego. Tenendo comunque a mente che
questa, come altre professioni, presenta aspetti a mio parere non valutabili e
tensioni interne che da fuori si immaginano difficilmente: non a caso gli
insegnanti sono tra i più soggetti alla famigerata sindrome di
burn-out, dove la dimensione del
riconoscimento sociale gioca un ruolo molto significativo, ma anche l’empatia e
la condivisione sono di grande e non percepita importanza.